IL VACUUM CONTRA NATURAM di Eugenio Montale

Eugenio Montale: vita, poetica e pensiero dell'autore di “Ossi di ...


Nel recentissimo saggio di Andrea Gareffi dal titolo OPUS CONTRA NATURAM DI MONTALE, nella fitta messe di livelli interpretativi della poetica di Eugenio Montale, viene restituita un’immagine del grande poeta del Novecento come sacerdote del tempo, cantore del Kronos, per nulla interessato ai luoghi, sebbene le situazioni evocate in numerose sue liriche abbiano spesso come punto di partenza dei posti ben determinati, come ad esempio nella lirica La casa dei doganieri, dove la memoria della dimora delle vacanze estive trascorse durante la giovinezza a Monterosso è il punto di partenza da cui si articola il canto del poeta. Montale sacrifica quindi lo spazio al tempo, il topos al kronos, è interessato allo scorrere delle stagioni, alla memoria come riappropriazione di un tempo che non ci appartiene più, alla comparazione di un singolo istante di vita all’eternità.In questa meditazione sul tempo, l’analisi di Gareffi si concentra sul volgersi indietro, ovvero il movimento del pensiero “che si ripensa, che si rende consapevole di sè, essendo risalito alla sorgente, rinascendo nell’archetipo”. Un motivo questo che costituisce il leit motiv di diverse liriche collegate da questo specialissimo fil rouge. Tra le liriche in cui questo movimento all’indietro è più evidente vengono citate La casa dei Doganieri, Forse un mattino andando e Voce giunta con le folaghe. Come ben sappiamo la meditazione sul tempo di Montale è debitrice della speculazione filosofica di Henri Bergson che ha esposto le sue teorie in merito in diversi saggi. E’ una speculazione che viene mediata dalla filosofia di Laschelier, nota a montale attraverso gli studi filosofici della sorella Marianna. Secondo il filosofo francese infatti il tempo vissuto non coincide con il tempo oggettivo, che comunque viene concepito dalla nostra coscienza in modo diverso a seconda del nostro stato d’animo, delle esperienze che viviamo in prima persona. Egli contrappone il tempo inteso come corpo fisico, che viene artificialmente suddiviso in secondi, minuti, ore, che permette la misurazione del moto dei corpi, al tempo interiore, unico, indivisibile dell’interiorità. Il tempo vissuto non coincide con il tempo oggettivo, percepito dalla scienza,  e scorre nella nostra coscienza rendendo ogni esperienza irripetibile e irreversibile. Preso atto che esiste un tempo che non si può misurare e che non procede come un vettore, Montale percepisce la memoria come movimento all’indietro, come se il punto di arrivo costituisca il punto di partenza per raggiungere nuovamente uno degli innumerevoli inizi che popolano la coscienza umana e che in genere presenta come segnacolo una presenza, un’azione, un luogo. Questo movimento sfida le leggi della fisica e le nostre capacità intellettive ed è possibile esprimerlo verbalmente solo attraverso la poesia, che in questo modo si qualifica come una sorta di OPUS CONTRA NATURAM. Il movimento del ricordo presuppone una dimensione ultraterrena che precede la nascita di qualsiasi essere vivente, un vuoto che viene colmato da questa presenza che attraverso la vita si storicizza, si incarna in un corpo fatto di ossa e muscoli, svuota quella dimensione di una presenza spirituale destinata a riempirla nuovamente. La poesia che meglio esemplifica questo fattore della poetica di Montale, il cui titolo riecheggia in diversi luoghi dell’agile volumetto di Gareffi, è Voce giunta con le folaghe. D’altronde solo una poesia a memoria dell’affetto perduto di un padre può essere lo spunto decisivo per una meditazione più approfondita sulla morte, sullo scorrere del tempo, la memoria, il senso della vita, la dimensione sconosciuta e inconoscibile che attende l’uomo dopo il trapasso.
La poesia, costituita da 5 strofe di undici versi, è stata composta da Eugenio Montale nel 1947, ma venne pubblicata nel 1956 nella sezione Silvae della raccolta La Bufera ed altro. Nell’incipit del componimento il poeta si reca nel cimitero dove è stato sepolto suo padre, attraverso un sentiero solitamente battuto da capre e greggi; non siamo nelle condizioni di appurare attraverso la lettura del brano poetico se il poeta stia condividendo il suo cammino con una presenza accompagnatrice, una compagna di viaggio, sebbene i commentatori indichino la vicinanza Clizia, alias Irma Brandeis, con la filigrana di una serie di indizi, disseminati nel testo.
Le verbene, definite il “sangue dei cimiteri”, costituiscono una caratterizzazione paesaggistica, una nota di colore che più dei giunchi fioriti sono il correlativo di quei “campi elisi” dove l’anima trova albergo. Solo essere arrivati di fronte alla sepoltura del padre costituisce motivo di catarsi (v.2: … ci scioglieremo come cera), lenisce il tormento e l’ansia che lacerano il poeta nel corso del percorso che il tempo interiore misura più duraturo di quello matematico con cui si calcolano i minuti di percorrenza.
La lapide costituisce ormai l’unica memoria di una persona ormai defunta, questo ricordo è così forte che l’anima di colui che non c’è più è restituita a nuova luce (v. 7: erto ai barbagli) in una immagine che fotografa la persona in un singolo istante di vita (vv. 8-11: senza scialle e berretto, al sordido fremito/che annunciava nell’alba/ chiatte di minatori dal gran carico/ semisommerse, nere sull’onde alte.).
Nella seconda strofa viene presentata “l’ombra fidata”: è un testo descrittivo dell’anima di Clizia, che accompagna il poeta, rigida come un’erma, leggera ed evanescente come solo un’ombra immaginiamo sia (vv. 18-21: l’ombra non ha più peso della tua/ da tanto seppellita, i primi raggi del giorno la trafiggono, farfalle/ vivaci l’attraversano, la sfiora/ la sensitiva e non si rattrappisce); ha una fronte ampia su cui campeggiano due “occhi ardenti” incorniciati da “duri sopraccigli” e su cui si staglia un ciuffo di capelli biondi (v. 17....un suo biocco infantile). L’anima di Clizia, fisicamente lontana, tesse un dialogo con quella muta del padre che ora è immateriale e indistinta nell’infinita e indefinita dimensione dell’oltretempo. Il poeta si tiene ai margini di questa conversazione, il suo peso e la sua materialità gli impediscono di partecipare, persino di udire lo scambio tra le anime; egli suppone che l’anima di Clizia, donna angelo, si congiunga con quella del padre del poeta in un una sorta di confine (sul margine del v.27); con un parallelismo che si articola lungo cinque endecasillabi, ognuna delle due anime palesa la sua condizione: la prima si rischiara alla luce del suo Primo Fattore (immagine di sapore autenticamente dantesco); la seconda teme di sparire dalla memoria dei suoi figli. Ed ecco, stretta tra due segni di interpunzione, la voce di Clizia, giunta con le folaghe da oltreoceano ad esortare l’anima del defunto a compiere il balzo definitivo nella dimensione platonica dell’oltretempo. Nonostante anche Irma sia in qualche modo legata alla sua “terrestrità”, la sua anima è arrivata sin lì per strapparlo dai suoi attaccamenti, da memoria degli eventi della vita terrena che ha senso finché è funzionale alla felicità dell’uomo, ma non quando lo blocca in una condizione di deprimente immobilismo ( vv. 41-43: … Memoria/ non è peccato fin che giova/ Dopo è letargo di talpe, abiezione/ che funghisce su di sé).
Nell’ultima stanza il dialogo tra le due anime viene interrotto dal soffio del vento del giorno, esattamente come nell’Infinito di Leopardi lo stormire delle fronde degli alberi, agitate dalla brezza, costituisce il suono che permette al poeta di riemergere dalla sua parentesi onirico-trascendentale. Il poeta ha l’avvertimento di questa dimensione ultraterrena, definita dapprima “punto dilatato” (v. 48), “fossa che circonda lo scatto del ricordo”(v. 49): è un medium che il poeta non riesce a toccare con le sue mani, la cui intuizione è un bagliore talmente rapido che non si lega a immagini e parole.
Gli ultimi due versi tentano quindi di dare una definizione di questo vuoto inabitato, un vuoto che noi colmiamo fino all’istante immediatamente precedente quello della nostra venuta al mondo, che rimane vuoto per tutta la durata della nostra vita e che torneremo a riempire nel momento in cui faremo il balzo e ci staccheremo dalla rupe. Per questo la memoria, il guardare all’indietro significa rivolgere il proprio pensiero ad un qualsiasi istante, collocato tra due poli, due soglie varcate dopo le quali il tempo si annulla e il ricordo, il passato, il presente ed il futuro non hanno alcun senso.
Per questo, volgersi indietro è come andare avanti e la memoria ha senso solo per i vivi.

  • Il linguaggio della poesia di Montale è oscuro, di difficile interpretazione, probabilmente perché il poeta cerca di descrivere con la poesia ciò che non ha una definizione univoca nemmeno in filosofia. Gli espedienti retorici con cui Montale utilizza la poesia come strumento di speculazione filosofica sono: 
  • le metafore, le metonimie, i correlativi oggettivi, pochi particolari, evocati ma non descritti, nature morte realizzate con cromie neutre, essenziali; 
  • allo stesso modo non troviamo mai nelle liriche di Montale dei ritratti dei personaggi che intervengono sulla scena, ma solo sfocati particolari, come frammenti di una memoria debolissima; se non ci fosse l’intermediazione di un commentatore non sapremmo nemmeno quale donna è chiamata in causa, come ad esempio ne La casa dei doganieri in cui non è affatto scontato che dietro il tu dell’apostrofe si nasconda Arletta. 
  • I paesaggi vengono messi in secondo piano, non abbiamo mai visioni di largo respiro, e una descrizione particolareggiata delle tinte cromatiche degli elementi naturali come nei kakémoni giapponesi, che lo stesso Montale doveva conoscere bene. 
  • Per parlare di infinito e di oltretempo è importante la lezione di grandi maestri come Leopardi e Dante, di cui in questo stesso componimento troviamo alcuni riferimenti.
  • Assenze presenti: sia ne La casa dei doganieri che nella Voce giunta con le folaghe il poeta si rivolge ad un persona lontana o defunta; in tutti e due i casi la letteratura ha la capacità di riportare alla vita uomini e donne morti, instaurare un dialogo con loro, mettersi in contatto con qualcuno che per un motivo o per un altro si è allontanato da noi.
  • I rimandi ai libri e alle letture, tra cui trattati e saggi di filosofia teoretica, con cui si è perfezionata la formazione culturale e morale del poeta, costituiscono un magazzino di idee, di fome, di iuncturae e di parole che hanno nutrito la sua produzione poetica a cominciare dalla pubblicazione della raccolta Ossi di seppia.


Si evince in conclusione che la poesia per Montale, l’opus contra naturam, è in realtà uno strumento conoscitivo potentissimo, una opus che procede post naturam, la penetra in profondità e che riesce anche in mancanza di parole e di definizioni ad esprimere l’indefinibile. D’altronde per descrivere qualcosa che va oltre la natura, ovvero ciò che possiamo percepire soltanto attraverso la nostra sensibilità, abbiamo bisogno di una lingua agrammaticale e innaturale come quella della poesia.

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