LA CASA DEI DOGANIERI




il componimento è stato composto dal poeta Eugenio Montale nel 1930, venne pubblicato per la prima volta nel 1932 e successivamente pubblicata nella raccolta poetica dal titolo Le occasioni nel 1939. Come in tutte le altre liriche contemplate in questa raccolta, il canto del poeta trova la sua genesi in un episodio specifico della sua personale esperienza biografica, un evento, un aneddoto, un ricordo, un’occasione appunto. Ciò che “occasiona” la lirica è, in questo caso, la rievocazione di un luogo specifico, di una casa che in passato era utilizzata come foresteria per i funzionari delle dogane e che fu la dimora estiva in cui il poeta risiedette nel corso delle sue villeggiature giovanili a Monterosso, una delle cinque terre liguri. Il poeta si rivolge ad una seconda persona, verosimilmente la sua donna Anna Degli Uberti, dal poeta affettuosamente soprannominata Arletta.


ANALISI DEL TESTO


Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.


La poesia non è regolare nella distribuzione dei versi per ogni singola strofa, il poeta decide di utilizzare il verso principe della tradizione poetica italiana, ovvero l’endecasillabo, generalmente utilizzato per il poema, il genere poetico in cui è insito, molto di più rispetto ad altre tipologie di composizione poetica, un carattere narrativo. L’endecasillabo, infatti, con la struttura metrica molto debole contribuisce a rendere l’eloquio del poeta più fluido e discorsivo, come se volesse imitare colui che parla liberamente dei propri ricordi, delle proprie memorie, usando una lingua familiare, senza ricorrere alla versificazione e alla funzione poetica del linguaggio. Il componimento ha pertanto la vocazione di un racconto, della cronaca di un periodo indeterminato della vita del poeta. 
L‘immagine dell‘edificio, che si erge solitario prospiciente il mare, è il correlativo oggettivo della solitudine, della malinconia, è un‘immagine che sa di estate, di quel periodo dell‘anno in cui la luce del sole ha il potere di sbiadite tutto, in cui aumentano i casi di depressione, quando è più facile che l‘inerzia e l‘inoperosità delle giornate lasci posto alle riflessioni personali e alle meditazioni sul proprio destino; non a caso il poeta accenna ai pensieri della donna amata, rappresentato concretamente come uno sciame di api che entra in un ambiente chiuso. Questa presenza femminile, che non compare mai sulla scena e stenta a diventare una delle protagoniste di questa narrazione poetica, è chiaramente la donna amata dal poeta, perché, con il verso conclusivo di questa prima strofa, l’io lirico mostra di essere coinvolto in prima persona da ciò che pensa la persona che lui ama: d‘altronde non siamo soliti anche noi chiedere a chi amiamo cosa stanno pensando quando li vediamo assorti nei loro pensieri, magari con un‘espressione corrucciata e velatamente triste, stampata sul volto? Il caratteristico incipit, in cui il poeta si rivolge ad una seconda persona, esortandola pacatamente a ricordare insieme a lui vicende del loro comune passato, è una sollecitazione che Montale media dall‘amatissimo Leopardi, con la differenza che nel testo del poeta recanatese l’interrogativa iniziale implica una risposta affermativa; Montale invece apostrofa la sua donna con la certezza che lei ignori qualsiasi particolare sulla casa dei doganieri e sulla vita che vi si svolgeva dentro. 


Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.


Il Libeccio, individuato dal poeta senza l’articolo determinativo, come se stesse parlando di un suo amico, di una vecchia frequentazione, è il vento africano proveniente da sud ovest, è un soffio portatore di pioggia, si erge qui a simbolo delle avversità della vita, delle tempeste che sconvolgono le esperienze biografiche umane, e in particolare di quelle vicissitudini di vario tipo che hanno avuto il potere, come si afferma nel secondo verso di questa seconda strofa, di cancellare ogni traccia di gioia anche dal suono della risata dell’interlocutore del poeta (questo racconto ha un destinatario, non coinvolge il lettore, esclude, tiene fuori dal dialogo tutti i membri della comunità dei fruitori). 
La bussola, lo strumento che solitamente è garanzia di coordinate spaziali per qualsiasi navigatore, che detta le direzioni per le navi disperse nell’oceano, che procede qui “impazzita”, è il correlativo oggettivo dello smarrimento, dell’incapacità di prendere una decisione, di agire verso una determinata direzione. 
Allo stesso modo il fatto che il calcolo dei dadi non torni, che il poeta o chiunque altro sia nell’impossibilità di determinare il verificarsi di una determinata combinazione numerica attraverso il calcolo matematico, è il correlativo del mancato possesso del tempo futuro, un tempo che noi non viviamo ancora e che pertanto ancora  non ci appartiene; allo stesso modo anche il passato non ci appartiene più ed è per questo che il poeta ribadisce nell’incipit del quarto verso, come in una sorta di anafora a distanza, la frase “tu non ricordi”, c’è un’altro tempo che sconvolge la memoria della donna amata, magari si tratta di quel presente, unico tempo che conserviamo nelle nostre mani, di quella dimensione che i due protagonisti di questa memoria vivono con toni elegiaci e languore. Il ricordo, come il filo aggrovigliato di una matassa, comincia quindi a sciogliersi: è un’immagine che rende efficacemente l’idea di qualcosa di sottile, delicatissimo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro. 

Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell'oscurità.


In questa terza strofa si introduce una nuova formula, un ritornello, una nuova anafora a distanza, un’espressione che farà di nuovo eco in altri loci della lirica. Il poeta si aggrappa al filo di un ricordo, ma la matassa è ancora aggrovigliata e inestricabile. È come se improvvisamente lo spazio che si è delineato intorno all’interlocutore femminile del poeta sparisca, resti sola con la sua non-presenza, si annienti del tutto nell’oscurità della sera. È doveroso parlare di non-presenza perché anche la respirazione, conditio sine qua non della vita, è un’attività che qui non viene riscontrata da parte della donna. 


Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.


La calma e il silenzio, evocati dall’immagine della piatta linea del mare che la separa dal cielo, vengono interrotti dal passaggio di una petroliera individuata da una “rara luce”: sembra di avere di fronte uno di quei paesaggi di Turner, dove regna sovrana l’essenzialità compositiva e gli elementi che lo costituiscono sono riprodotti con larghe e vibranti stesure di colore omogeneo: è un correlativo oggettivo che suggerisce l’idea della solitudine e della piccolezza dell’uomo all’interno del vasto mare dell’universo (sollecitazione leopardiana). Non vi sono suggestioni cromatiche, tutte le sollecitazioni visive che vengono suggerite dall’autore, sono luci ed ombre, bagliori e oscurità. Un’altra sfera sensoriale che ricorre all’interno del componimento è quella uditiva: un’interrogativa diretta introduce il terzo endecasillabo della terza strofa (il varco è qui?); tra parentesi, come se si cercasse con questi espedienti paragrafematici di riprodurre un tono di voce sommesso, il poeta commenta sottovoce la scena che si riproduce sotto i suoi occhi, dopo che il suo sguardo era stato solo un istante fa attratto dalla muta linea dell’orizzonte: il mare, che riprende a schiumeggiare abbattendosi sulla scogliera, nega ogni possibile via di scampo.
La conclusione non giunge inaspettata: il poeta continua ad asserire che la sua compagna non ricorda “la casa di questa mia sera” (Tu non ricordi la casa...), ma probabilmente non la ricorda bene nemmeno lui. 


Conclusioni
Il poeta fa largo uso del correlativo oggettivo, che diventa il principale strumento di espressione poetica: in questo componimento esemplificativo della poetica dell’autore non si evincono altre figure retoriche ma si procede con l’accumulo di immagini concrete che incarnano esse stesse i sentimenti, i pensieri, le predisposizioni spirituali che al di là della dimensione simbolica non potrebbero trovare una rappresentazione caratterizzata da connotazioni plastiche. 
In questo componimento non emergono ritratti di persone, la presenza umana della donna del poeta viene soltanto accennata attraverso l’apostrofe del poeta, ma è una presenza che rimane dietro le quinte, non sale mai sul palcoscenico. Difficilmente nell’ambito della lirica di Montale assistiamo alla rappresentazione fisica o spirituale di un essere umano. 
Il poeta ha una visione della vita umana come sofferenza, una vita confinata nei limiti cronologici del presente caratterizzata da angustie e incertezze. 
Questa angustia si rivela anche nella descrizione dei luoghi. Non abbiamo qui una visione di ampio respiro ma sempre un accumulo  di oggetti, come una serie di istantanee attaccate alle pagine dell’album dei ricordi. La natura non è oggetto di interesse, in questo componimento abbiamo un timido accenno ai margini del profilo della scogliera e dello strapiombo, su cui si erge la casa dei doganieri, e all’orizzonte al tramonto, bozzetto bruscamente interrotto dalla sagoma della petroliera. 
Il topic della lirica è la fragilità del ricordo, il poeta vuole comunicarci che non possiamo più riappropriarci di ciò che si perde nella notte del passato e che è inutile fare progetti per il futuro. Altro tema illustrato dalla poesia è il sentimento che provano tutti coloro che per un motivo o per un altro perdono una persona amata, una presenza importante nella propria vita (il poeta si rivolge ad una donna di cui non ha più notizie, come se stesse tessendo questo discorso al al suo cospetto).
Le forme nominali utilizzate nel componimento generano campi semantici relativi al mare e alla navigazione: libeccio, bussola, strapiombo, scogliera, petroliera. Una scelta che denota una certa dimestichezza di Montale con l’ambiente marino dal momento che il poeta era solito trascorrere tutte le sue estati a Monterosso, alle Cinque Terre. Allo stesso modo non c’è una descrizione dettagliata, minuziosa, della casa dei doganieri che è pur sempre il topic della rievocazione poetica dell’autore. 
Altri poeti hanno utilizzato i luoghi del cuore come oggetto di interesse, come espediente, come immagine di partenza per procede poi ad una riflessione più generale sulla condizione umana. Leopardi ha fatto la stessa cosa con l’infinito, una passeggiata sull’ermo colle, la contemplazione passiva della natura e l’avvertimento dell’immensità dell’universo circostante. 

È nostalgica la rievocazione del Montale? La casa dei doganieri è un ricordo felice? Un luogo del cuore? È un posto solitario, desolato, sferzato dai venti di ponente, e se sfugge alla memoria probabilmente non ha alcun senso nemmeno rievocarlo, anzi il suo ricordo sembra essere funzionale ad incrementare l’affanno. Di essa non rimane che la sequenza di una banderuola sporca e cenciosa che continua ad essere agitata dal vento. 

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