MEMENTO PIETRO BEMBO

Quando si parla di lingua italiana, uno slogan che ancora oggi capita di sentir ripetere nelle scuole secondarie, spesso proprio attraverso le labbra dei docenti di lingua e letteratura italiana, è che Dante Alighieri può essere non a torto considerato il "padre della lingua italiana" e la sua patria natia, Firenze, la città che ha dato i natali a questa nostra lingua nazionale. A questo proposito, pur riconoscendo la grandezza del Sommo, autore di opere che sono giganteschi monumenti della nostra letteratura, io ritengo che questa opinione debba essere in parte sconfessata e che sia invece necessario sintonizzarsi su una diversa opinione, magari per il momento contenuta solo nei ristretti limiti del mio pensiero, ma sicuramente consona alla realtà di come i fatti si sono svolti, ovvero che Dante non è il padre della lingua italiana ma bensì il bis-nonno, che come nonno debba essere considerato il cardinal Pietro Bembo e che come vero e proprio padre, se non altro per l'impegno profuso come promotore di una lingua nazionale, debba essere scelto Alessandro Manzoni
Nella terna di illustri antenati, che ho appena passato in rassegna, sono sicuro che il nome del nonno sia meno noto ai più, molto probabilmente perché nel corso della sua lunga vita (se non ricordo male, il Bembo morì all'età di 76 anni), sebbene tempestata da soddisfazioni e dal raggiungimento di alte vette, non ebbe mai modo di partorire una colossale e sconvolgente opera di narrativa, nessun romanzo storico, né poemi didascalico-allegorici o canzonieri che gareggiassero in eleganza con quello di Francesco Petrarca.

Sicuramente il cardinal Bembo non si è limitato a fare la vita da alto prelato, la cui carriera venne agevolata dalla provenienza da una illustre famiglia dell'aristocrazia lagunare, anche perché Iddio non fu l'unico amore dell'autore delle PROSE DELLA VOLGAR LINGUA, dato che ebbe una relazione adulterina e clandestina con la famigerata Lucrezia Borgia, figlia illegittima del pontefice Alessandro VII, consorte del duca di Ferrara, Alfonso d'Este. Ebbe inoltre un'amante con cui visse more uxorio e che gli diede ben tre figli, una concubina con cui si trasferì nella sua dimora di Asolo, quando finse cagionevoli condizioni di salute per svignarsela da una troppo stretta corte papale e dedicarsi così ai suoi amati codici e codicilli. 

Anche se non si impegnò mai nella redazione di un poema che fosse la summa della filosofia e della visione del mondo dell'uomo del Rinascimento, anche se non ha mai scritto nemmeno la bozza di un grande romanzo storico, la sua attività fu davvero infaticabile e fondamentale per i futuri sviluppi della poesia e della prosa d'arte in Italia. Innanzitutto curò presso il tipografo Manuzio in quel di Venezia le prime edizioni critiche a stampa dei tesori letterari delle origini, come la Commedia di Dante (la cui edizione a stampa del 1502 rimase il testo di riferimento all'interno della tradizione più intricata della letteratura italiana, con più di ottocento testimoni per citare solo la tradizione manoscritta), il Canzoniere dell'amatissimo Petrarca, una pietra miliare della versificazione, accanto a Giovanni Boccaccio, modello per la prosa.

Il suo amore e il suo timore reverenziale per la varietà linguistica che si intendeva in Firenze fu così profondo da farsene promotore come lingua d'arte, quell'unico codice a cui tutti coloro che si erano formati sulle arti del trivio e del quadrivio avrebbero dovuto far ricorso nella composizione dei loro capolavori letterari. Le sue convinzioni in merito furono profondissime, ancora oggi non sappiamo se sia stata la marca di prestigio delle tre corone o la sua attività indiretta di pubblicista a sancire la definitiva scelta del fiorentino emendato come varietà standard, dialetto dei dialetti, quella lingua che i nuovi italiani avrebbero imparato nelle aule delle scuole pubbliche, che si sarebbe fregiata di una base normativa e di un dizionario. Basti pensare che già nel XVI secolo Ludovico Ariosto avrebbe speso vent'anni della sua vita a mutare la facies del Furioso, in quella lunga e laboriosa operazione di chirurgia stilistica che portò all'edizione del 1541 in 46 canti.
Probabilmente, se il cardinal Pietro Bembo non fosse mai esistito oppure avesse avuto in odio le belle lettere, probabilmente Manzoni non avrebbe mai deciso di trascorrere una lunga vacanza studio in quel di Firenze e avrebbe continuato tranquillamente a sciacquarsi i panni tra la villa di Lecco e la sua dimora milanese.

Anche Pietro Bembo dovrebbe essere conosciuto dai nostri giovani, le sue opere, i dialoghi Asolani, le Rime, dovrebbero figurare nei manuali di letteratura, essere un testo di riferimento per una riflessione sulla genesi e l'evoluzione dell'italiano standard.

























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