UN ESEMPIO DI ANALISI TESTUALE STRUTTURALISTA

Nell'immagine fotografica qui riprodotta sono raffigurati Francesco Petrarca e la sua amata Laura in un affresco che ancora oggi adorna uno degli ambienti della dimora del poeta ad Arquà, in Veneto. A questo proposito si veda la pagina web https://www.collieuganei.it/ville/casa-del-petrarca/

Senza esserne pienamente consapevoli, nell'ambito dell'insegnamento della letteratura nella scuola secondaria di secondo grado e nell'approccio con i testi cardine della nostra tradizione letteraria, le modalità operative e gli strumenti con cui tutti noi siamo stati abituati ad avvicinare un qualsiasi testo in poesia o in prosa sono quelle relative alla critica e all'ermeneutica letteraria strutturalista. In parole povere ci si limita a ragionare sulla lingua: le figure retoriche, la metrica, la lunghezza dei versi, gli accenti tonici, la prosodia, la struttura formale del componimento, il numero delle stanze, il numero dei capitoli se si tratta di un romanzo. Sì, è sicuramente vero che non riusciamo a prescindere dai dati storici, dalla biografia dell'autore, dal suo pensiero, dalla fortuna che la sua produzione ha avuto nel corso dei secoli, dalla data e dalle circostanze di composizione di una determinata opera letteraria, ma è pur sempre vero che il punto di arrivo è lo stile, i modi e gli strumenti con cui scrive un poeta appunto. 
Certamente nessuno di noi è stato abituato a leggere un canto della Commedia dantesca cercando di distinguere ciò che è poesia da ciò che non lo è, come avrebbe consigliato caldamente Benedetto Croce, allo stesso modo non ci interroghiamo sulla psicologia dell'autore, cercando di cogliere tra le righe dei suoi scritti traumi infantili e complessi nascosti, secondo i dettami di Freud e della critica psicanalitica. A nessun insegnante interessa individuare rapporti di potere, il gusto e la filosofia di vita delle classi dominanti, come hanno fatto i critici letterari di ispirazione marxista. 
Lo strutturalismo nasce all'inizio del XX secolo, successivamente alla riflessione sulle idee e le considerazioni sopra i fatti di lingua, espresse da Ferdinand De Saussure, inconsapevole inventore della linguistica generale. Il glottologo ginevrino nei suoi appunti, sparsi sulle carte e sui foglietti che tesaurizzò nel corso della sua attività, aveva parlato di lingua come sistema, come struttura, che ha delle caratteristiche ricorrenti in diacronia e sincronia. Da quanto finora detto è facile evincere come la critica strutturalista sia interessata fondamentalmente alla lingua dei poeti, alla retorica, all'uso originale, unico e irripetibile, che ogni autore fa del codice linguistico adottato da una specifica comunità di parlanti, allo stesso tempo convenzionalmente e arbitrariamente.
Tra le conclusioni di Monsieur De Saussure sui fatti di lingua, quella che ritengo più utile ai fini della costituzione di un personale metodo di analisi testuale è la dicotomia tra langue e parole: per quanto riguarda i protagonisti della letteratura italiana, la langue è l'italiano della tradizione poetica, quella lingua aulica, raffinata e aristocratica che prende le mosse da quel volgare illustre vagheggiato da Dante, la parole in questo caso è l'italiano della tradizione usato da un determinato autore, le parole che ricorrono con maggior frequenza nelle sue opere, le strutture metriche che gli sono congeniali, le figure retoriche che sceglie per impreziosire  i suoi versi, la sintassi delle sue frasi, le immagini, i tòpoi, quegli elementi linguistici che ci permettono di risalire a quel poeta, a lui soltanto e a nessun altro. Ci sono autori, come ad esempio il polimorfico Dante, per cui è difficile ricostruire questa speciale carta d'identità linguistica, ma per altri, come Petrarca, auctoritas letteraria in saecula saeculorum fedele a sé stessa, non è affatto difficile individuarne l'idioletto; e adesso lo dimostreremo procedendo all'analisi testuale secondo un metodo strutturalista della canzone dal titolo Chiare, fresche e dolci acque, contenuta nella raccolta poetica, che lo ha reso noto e riconoscibile, il Canzoniere, i Rerum vulgarium fragmenta, alla posizione 126:

1.

Chiare, fresche e dolci acque,

ove le belle membra

pose colei che sola a me par donna;

gentil ramo ove piacque

(con sospir' mi rimembra)

a lei di fare al bel fianco colonna;

erba e fior' che la gonna

leggiadra ricoverse

co l'angelico seno;

aere sacro, sereno,

ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:

date udïenza insieme

a le dolenti mie parole estreme.


2.

S'egli è pur mio destino

e 'l cielo in ciò s'adopra,

ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,

qualche gratia il meschino

corpo fra voi ricopra,

e torni l'alma al proprio albergo ignuda.

La morte fia men cruda

se questa spene porto

a quel dubbioso passo:

ché lo spirito lasso

non poria mai in piú riposato porto

né in piú tranquilla fossa

fuggir la carne travagliata e l'ossa.


3.

Tempo verrà ancor forse

ch'a l'usato soggiorno

torni la fera bella e mansüeta,

e là 'v'ella mi scorse

nel benedetto giorno,

volga la vista disïosa e lieta,

cercandomi; e, o pietà!,

già terra in fra le pietre

vedendo, Amor l'inspiri

in guisa che sospiri

sí dolcemente che mercé m'impetre,

e faccia forza al cielo,

asciugandosi gli occhi col bel velo.


4.

Da' be' rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior' sovra 'l suo grembo;

ed ella si sedea

umile in tanta gloria,

coverta già de l'amoroso nembo.

Qual fior cadea sul lembo,

qual su le treccie bionde,

ch'oro forbito e perle

eran quel dí a vederle;

qual si posava in terra, e qual su l'onde;

qual con un vago errore

girando parea dir: - Qui regna Amore. -


5.

Quante volte diss'io

allor pien di spavento:

Costei per fermo nacque in paradiso.

Cosí carco d'oblio

il divin portamento

e 'l volto e le parole e 'l dolce riso

m'aveano, e sí diviso

da l'imagine vera,

ch'i' dicea sospirando:

Qui come venn'io, o quando?;

credendo d'esser in ciel, non là dov'era.

Da indi in qua mi piace

quest'erba sí, ch'altrove non ò pace.


Se tu avessi ornamenti quant'ài voglia,

poresti arditamente

La lingua della tradizione poetica italiana è estremamente conservativa e le liriche del Petrarca hanno un alto livello di intelligibilità anche per un lettore di cultura media. Tuttavia la morfologia delle parti del discorso di un componimento poetico del Petrarca presenta alcune caratteristiche che rendono peculiare la facies dell'idioletto petrarchesco: nelle forme nominali e in quelle verbali intervengono spesso sincopi di una sillaba postonica (v. adopra, v. 56: carco), apocopi di vocali finali, come la "e" oppure la "o", desinenza finale di aggettivi qualificativi e sostantivi, preceduta da liquida e nasale intervocalica (gentil ramosospir mi rimembra, fior che la gonna, Amor co' begli occhi, fuggir la carne, pien di spavento, qual con un vago erroreil divin portamento), oppure i piedi degli infiniti, quando la parola in questione è collocata in fonosintassi prima di una parola incipiente per consonante (sola a me par donna, fuggir la carne, parea dir: qui regna Amore). 
Da bravo poeta toscano, nato a Firenze, Petrarca esibisce dittonghi in corrispondenza di vocaliche toniche in sillaba aperta in parole la cui base etimologica prevedeva in corrispondenza una vocale media breve (dittongamento toscano, es. già terra in fra le pietre). 
Le preposizioni articolate non sono univerbate, non presentano il raddoppiamento della laterale del derivato del dimostrativo latino ille.
Per quanto riguarda la morfologia delle forme verbali, la lingua della tradizione poetica italiana prevede lil suffisso caratterizzante in ea delle terze persone singolari e plurali dell'imperfetto indicativo, limitatamente ai verbi della seconda coniugazione, caratteristica che ricorre anche nei poeti attivi nei secoli successivi, fedeli alla lezione stilistica del Petrarca (scendea, sedea, cadea, parea, aveano).

In questo testo poetico, così come in altre liriche della medesima raccolta, è facile trovare parole che si riferiscono alla sfera semantica del divino e del paradisiaco. Nella lirica d'amore della letteratura italiana delle origini, quindi a maggior ragione in Petrarca, fine cultore del latino classico e della civiltà della Roma imperiale, non è strano trovare un elemento di paganesimo, che più precisamente consiste nella personificazione dell'amore, contemplato come una sorta di divinità, appartenente al pantheon capitolino, che assume il ruolo di mediatore tra la struggente passione del poeta e l'indifferenza della sua donna amata. e questo elemento coesiste con la convinzione che esista un unico Dio onnipotente, uno e trino, primo fattore dell'universo (cfr. ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse, ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, ... Amor l'ispiri/ In guisa che sospiri/ sì dolcemente...).
Diversamente da quanto ci aspetteremmo da un autore infarcito di romanità, in questa canzone, al di là dei latinismi spene e mercede, la scelta lessicale non è orientata a rendere omaggio alla lingua di Virgilio e Orazio, la parola albergo al verso 19 deriva dal gotico haribergo e viene utilizzato per indicare una dimora abituale (si veda ad esempio il v. 5 de Le Ricordanze di Giacomo Leopardi: questo albergo ove abitai da fanciullo), al contrario della parola soggiorno, ricorrente in questa canzone al verso 28, nella terza stanza, che definisce invece un luogo in cui si sosta per un tempo determinato. Anche l'aggettivo qualificativo forbito del verso 48 deriva dal verbo francone forbian, "pulire le mani" e ha qui il senso di "lucente". Insomma il pattern lessicale adottato da Petrarca non esclude forme che provengano da lingue non romanze, probabilmente nell'utilizzo del volgare come lingua d'arte Dante era più propenso a fare ricorso a latinismi di quanto lo fosse Francesco Petrarca.
Nella canzone occorre inoltre soffermarsi su due parole, nel loro piccolo rivelatrici della cultura del tardo medioevo, che esprimono due significati che non ci appartengono più. Oggi di fronte ad una delusione d'amore, ad un abbandono, ad un amore non corrisposto, nessuno esprime simbolicamente il suo stato d'animo con il sospiro, le liriche dei poeti toscani del XIII e del XIV secolo ne sono invece piene. Ma il sospiro non è propriamente la forma nominale indicate la sofferenza, il buco nello stomaco, la nostalgia, sentimenti che meglio vengono espressi dalle perifrasi che descrivono l'immagine degli occhi bagnati di pianto (cfr. v. 16, Ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda, e il v. 39, asciugandosi gli occhi col bel velo. Qualcosa del genere lo abbiamo individuato anche in Leopardi). Allo stesso modo la parola gloria evoca un'immagine del tutto assente nell'enciclopedia mentale dell'uomo del terzo millennio: nella fase storica in cui Petrarca assemblava il suo Canzoniere, essa era sinonimo di apoteosi, di assunzione in cielo, di incoronazione per mano di Cristo o del Padre Eterno, dei fondali dorati delle pale d'altare su cui campeggiavano Santi, Madonne e schiere angeliche, insomma era un campo semantico decisamente diverso da quello evocato dalla stessa parola nella classicità, dove invece significava cortei trionfali sfilanti sotto archi a tre fornici e Cesari vittoriosi.
Nella scelta degli aggettivi qualificativi, Petrarca ha adottato il criterio dell‘eleganza, della ricercatezza, del labor limae: gentil, leggiadra, angelico, dolenti, meschino, dubbioso, travagliata, amoroso, vago etc. Per definire Laura, personaggio protagonista del romanzo poetico del Petrarca, di cui misconosciamo i lineamenti del volto, nota per la pelle candida e la bionda chioma, nella presente canzone è particolarmente ricorrente l‘aggettivo bella, soltanto in un singolo caso la donna del poeta viene definita umile.

In poesia la disposizione delle parole, la sintassi della frase, è comprensibilmente condizionata dalle implicazioni metriche e prosodiche, la struttura formale condiziona in qualche modo la sostanza. Tuttavia in questa lirica del Canzoniere, e forse il medesimo schema ricorre altrove nel Liber del Petrarca, abbiamo notato che l'aggettivo, quando è in funzione attributiva, viene anteposto alla forma nominale con cui è concordato, al contrario, quando l'aggettivo ha una funzione predicativa, ovvero completa il significato dell'azione espressa dal soggetto, viene postposto al sostantivo a cui si riferisce.
Per il resto, in questa lirica Petrarca ricorre al gerundio per le subordinate implicite di valore causale, temporale e strumentale e, quando può, colloca il verbo alla fine dell'enunciato, seguendo il modello sintattico del latino classico.

Anche qui Petrarca dimostra di essere un maestro nella gestione dell'abbellimento retorico dei suoi testi, utilizza sapientemente figure retoriche di suono, di posizione e di significato (si veda il documento digitale segnalato nel presente post). Non mancano anche in questo esempio efficacissime metafore, ma una grande assente è la figura della similitudine, tanto cara a Virgilio, maestro spirituale di intere generazioni di poeti e letterati della tradizione letteraria italiana, tanto adusata da Dante nel suo poema allegorico-didascalico. D'altronde ciò non stupisce affatto, la similitudine è più funzionale ad un testo che abbia velleità narrative e poco si adatta alle caratteristiche di brevitas, dottrina e cura formale di una intimistica lirica.

L'operazione che abbiamo appena tentato di fare, l'individuazione della parole del Petrarca, del suo particolare e inconfondibile idioletto, è sicuramente molto più difficile, se non impossibile, per un autore come Dante, che rispetto al suo illustre e osannato predecessore si è contraddistinto per una scrittura plurilinguistica e polimorfica. Lo stesso Gianfranco Contini, in un certo senso uno dei fondatori della critica strutturalista in una cultura italiana che sapeva di crocianesimo, ha coniato il termine monolinguismo per definire lo stile del Petrarca. Da ciò scaturisce che non esiste una metodologia di critica e analisi migliore delle altre, che sia valida ed efficace per tutti gli autori della letteratura universale, ma è molto più utile ripensare ogni volta al metodo di analisi più funzionale alla conoscenza approfondita di un autore.

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