La linguistica generale del basso Medioevo: il DE VULGARI ELOQUENTIA

Negli stessi anni in cui un Dante maturo si stava dando alla filosofia e cercava di delineare più marcatamente il proprio profilo intellettuale, veniva alla luce il primo importante trattato di linguistica generale ante litteram della storia dell’umanità. Un’opera purtroppo incompleta, in quanto le vicissitudini di Dante non gli consentirono di dedicarsi con agio ad una raccolta sistematica e ben organizzata di pensieri e considerazioni sulla lingua. Dante però non decise di parlare metalinguisticamente del volgare in volgare, ma utilizzò il latino (badate bene: il suo latino, non quello di Cicerone e di Livio!).



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A questo punto è il caso di sollevare Preliminarmente un paio di questioni da risolvere molto velocemente.


La motivazione per cui Dante ha utilizzato il latino e non il volgare. 


Parlare di linguistica, di letteratura o di retorica comporta affrontare questioni che non costituiscono proprio patrimonio popolare: io stesso, quando cerco di condividere il mio amore per la grammatica italiana e per la linguistica generale, vengo spesso inascoltato e barbaramente ignorato, anche dai miei colleghi (dimostrazione di questa mia ultima asserzione è l’evidente esiguità di coloro che bollano con un “mi piace” le pubblicazione dei miei post sui social network). Dietro la scelta di Dante c’è quindi la piena consapevolezza che le argomentazioni del suo trattato sono appannaggio di poche persone. Se poi consideriamo che la questione della lingua costituiva un problema solo per gli intellettuali e i chierici che si spostavano di corte in corte, allora comprendiamo bene come il messaggio contenuto nel DE VULGARI ELOQUENTIA sia una specie di soliloquio, anche in considerazione del fatto che le idee di Dante in proposito rimasero per svariati decenni misconosciute all’intera comunità dei dotti. Quindi il latino, lingua della celebrazione eucaristica, della filosofia, della teologia, a servizio delle arti liberali, era la scelta più ovvia. 


Seconda questione da discutere: come mai Dante sostiene la necessità della costituzione di un volgare illustre e contamina progressivamente il prestigio delle diverse varietà Italo-romanze che scorre in rassegna, demonizzando anche il prestigio del fiorentino, e poi fa ampiamente uso di quest’ultimo codice linguistico per la redazione della sua magna opera, la Commedia? Posso rispondere con due argomentazioni: 

  1. Innanzitutto non è detto che Dante abbia usato il fiorentino: con una tradizione manoscritta così copiosa, che supera anche quella della Vulgata di Gerolamo e che è caratterizzata da più di 800 testimoni, parlare della lingua della Commedia è una vexata questio, una brutta gatta da pelare. Come si può essere convinti che la lingua adottata da Dante sia il fiorentino e che non ci sia stata una contaminazione da parte degli stessi copisti, che la filologia di tradizione ha non poche volte messo in discussione?
  2. Non ha caso il titolo del poema sacro di Dante è Commedia, o Comedía, ergo c’è un evidente richiamo allo stile comico, caratterizzato da un registro medio e da una peculiare mistura di forme ricercate e altre fortemente mancate dal punto di vista diastratico ( quindi non è niente di sconvolgente trovare nella prima cantica AMORE e DESIRE accanto a ROGNA e MERDA). La lingua madre è il codice a cui facciamo ricorso quando siamo maggiormente coinvolti in una discussione, è la lingua delle emozioni forti, degli affetti prossimi. Pertanto se Dante, infervorandosi, decide di selezionare spontaneamente il fiorentino, questo non significa necessariamente che ha scelto questa lingua per la stesura dell’intero poema. Dante era troppo avanti, stava già vagheggiando un processo di standardizzazione. 


Dante esprime un giudizio unanimemente critico nei confronti di qualsiasi volgare parlato sulla penisola italica: il romanesco (che è figlio del fiorentino), ad esempio, viene addirittura bollato con l’epiteto di tristiloquium, per la cacofonia e l’ineleganza del suo lessico. 


Come per il Convivio, l’esigenza di dedicarsi anima e corpo alla composizione dell’opera che più di tutte ha conferito gloria e prestigio a Dante ha arrestato la stesura del trattato alla metà del secondo libro. L’opera, per come ci è arrivata, è caratterizzata pertanto da una relativa brevitas, che le permette, se letta in traduzione, di essere consumata anche dai lettori non propriamente addetti ai lavori in sole due ore; provare per credere! 


I LIBRO

La multiformità del linguaggio verbale umani ha la sua eziologia dalla torre di Babele: l’opera incoraggiata dal re Nembrot, volta ad erigere un edificio che fosse in grado di lambire il Regno di Dio, venne percepita dall’Altissimo come un ignobile atto di superbia che venne a sua volta punito con la distruzione della torre stessa e la frammentazione della lingua di Adamo in tante varietà linguistiche, diverse le une dalle altre (Dante ci fa notare che l’uomo è l’unico essere del Creato ad avere necessità di comunicare attraverso la lingua, a differenza degli angeli e degli animali).

Sicuramente tra le lingue che si formarono spontaneamente e naturalmente dopo la punizione divina della Torre di Babele non possiamo annoverare il latino, da Dante erroneamente considerata una lingua artificiale, progettata a tavolino come codice linguistico utile al superamento del problema dell’incomunicabilità tra i diversi idiomi. 

Il poeta fiorentino individua tre macrogruppi familiari in cui suddividere tutte le lingue del mondo, con una lungimiranza che gli consente di anticipare le classificazioni più recenti dei neogrammatici del XIX secolo:

  1. La famiglia della greca, che costituisce un gruppo sparuto
  2. La famiglia delle lingue germanico-slave
  3. La famiglia delle lingue dell’Europa meridionale

Quest’ultima terza famiglia è a sua volta suddivisa in ulteriori tre raggruppamenti, nomenclati sulla base delle modalità con cui in quelle specifiche varietà si pronuncia l’interiezione affermativa: 

  1. La lingua d’oil
  2. La lingua d’oc
  3. La lingua del sì

Da qui la discussione si concentra sulla lingua che viene parlata a sud della catena delle Alpi, lungo la penisola italiana. Ovviamente Dante era ben lontano dal considerare la lingua del sì come una varietà standard, omogenea e dovunque identica a sé stessa, facilmente comprensibile sia a Nord che a Sud della Penisola. Vengono individuati ben 14 volgari, anche se le varietà Italo-romanze realmente esistenti dovevano essere decisamente di più. 

Gli Appennini in questa discussione costituiscono un punto di riferimento geografico per la distribuzione di queste varietà linguistiche lungo la penisola: ci sono infatti 7 volgari ad est della catena montuosa e 7 a ovest. 

Dopo aver condotto una rassegna dei diversi volgari in cui ne mette in evidenza caratteristiche, vizi e virtù, l’autore conclude che nessuno di questi volgari è degno di essere la lingua della letteratura, ad uso e consumo dei poeti e degli intellettuali che portavano la loro parola di corte in corte, proprio come stava facendo lo stesso Dante già dai primi anni del XIV secolo. Il poeta fiorentino, proprio per questo, vagheggia allora il progetto di un volgare illustre, un tesoro verbale che sia patrimonio di poeti e filosofi, frutto di una selezione delle forme più eleganti e delle costruzioni sintattiche più armoniche. 

Il volgare illustre avrebbe avuto pertanto uno status tripartito:

  1. Cardinale (è la modalità con cui Dante anticipa il concetto di varietà standard):è la lingua cardine attorno cui ruotano tutte le diverse varietà italo-romanze;
  2. Aulico, ovvero tipico delle aule, gli ambienti di rappresentanza delle regge e delle dimore signorili
  3. Curiale, ovvero parlata presso la curia, ovvero la corte.

Insomma il volgare illustre, nella mente di Dante, avrebbe dovuto essere la lingua aristocratica e raffinata dell’élite intellettuale della nazione.


II LIBRO

Con le conclusioni a cui addiviene Dante in questo secondo libro avrebbe poi influenzato l‘evoluzione della storia della letteratura italiana. Innanzitutto stabilisce il primato della poesia sulla prosa, in seguito classifica le diverse declinazioni dell‘arte poetica secondo tre fondamentali materie. La poesia può pertanto essere:

  • Poesia epica, celebrante le imprese di cavaliere ed eroi
  • Poesia d‘amore
  • Poesia della rettitudine

È interessante inoltre apprendere da Dante che il primato della poesia d‘amore non spettava al primo dei suoi amici, Guido Cavalcanti (con cui ad un certo punto è probabile vi fossero dissapori), ma al più timido e meno noto Cino da Pistoia. La palma della poesia delle rettitudine spetta invece a Dante stesso, il poeta che aveva superato lo Stilnovo e che in quegli anni stava già elaborando la Commedia. 

Per la prima volta viene illustrata la classificazione dei generi letterari e delle forme metriche in tre fondamentali livelli stilistici: lo stile alto o tragico (tipico della poesia epica e della lirica d’amore), quello medio o comico (caratteristico di quelle opere letterarie caratterizzate da plurilinguismo e facile intelligibilità da parte dei profani) e lo stile umile o elegiaco (proprio della poesia religiosa e dei compianti funebri).

La forma metrica più illustre è sicuramente la canzone e l‘endecasillabo ed il settenario sono i versi più idonei a racchiudere l‘ispirazione e l’estro degli italici poeti. Se pensiamo alla produzione di Petrarca, Tasso e Leopardi, ci rendiamo conto come le tesi di Dante siano state imperanti e profetiche allo stesso tempo. 



I MODELLI 


L‘opera, che può non a torto essere considerata una perla della storia della letteratura latina medievale, piuttosto che della letteratura italiana, è un unicum, un prodotto originale e intellettualmente acuto del nostro sommo poeta. È un trattato innovativo sia per le tematiche che affronta, perché mai prima di allora si discusse con tale vivacità di lingua, sia per la forma in cui è scritta perché la chiarificazione delle argomentazioni non avviene attraverso il dialogo tra due o più interlocutori. 


LA TRADIZIONE

La tradizione manoscritta del De Vulgari Eloquentia è costituita da cinque testimoni manoscritti, due conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, uno presso la Trivulziana a Milano, altri due rispettivamente a Berlino e a Strasburgo. 

L‘interesse nei confronti del trattato dantesco in epoca moderna venne sollecitato dalla riscoperta che ne fece Gian Giorgio Trissino (sì proprio lui, l‘autore de L‘Italia liberata dai Goti), che ne fece un volgarizzamento stampato nel 1529 e dedicato al cardinal Ippolito De’ Medici. 

Molti misero in dubbio l’autenticità della scoperta del Trissino, mettendone in dubbio sia la paternità dantesca sia l’autenticità, accusando il letterato vicentino di aver prodotto a bella posta un documento fasullo. L‘accusa nei confronti del Trissino era funzionale all‘apologia delle tesi del Bembo, esposte nelle Prose della volgar lingua, in cui veniva celebrato il primato del fiorentino e innalzati a modello per poeti e prosatori rispettivamente Petrarca e Boccaccio. Trissino invece, anche sulla base della teoria del volgare illustre, era convinto che la risposta alla questione della lingua fosse l‘adozione di una koinè linguistica aulica, raffinata e aristocratica. 

L‘edizione critica più importante del Novecento fu quella a cura di Pier Vincenzo Mengaldo del 1968. 


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