A SILVIA di Giacomo Leopardi - testo critico di C. Di Carlo.
Ho deciso di ospitare presso questo mio spazio virtuale anche interventi, scritti, pensieri, riflessioni ed analisi dei miei studenti e delle mie studentesse. Il testo che segue questa breve premessa porta la firma della bravissima Carlotta Di Carlo, giovane pittrice in formazione frequentante la classe 5-A del Liceo artistico statale H. Matisse, sede distaccata a Cave (RM) del Liceo artistico Enzo Rossi. Per i lettori del blog Carlotta ha prodotto un testo critico su una delle più celebri e commoventi liriche della storia della letteratura italiana, A Silvia di Giacomo Leopardi.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie d′intorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. e non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovinezza. ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
qui sotto: Jan Vermeer, La Merlettaia, 1669-1670, olio su tela, 23,90 x 20,5 cm, Parigi, Museo del Louvre.
La canzone, composta da Giacomo Leopardi nel 1828 e pubblicata nella raccolta dei Canti, sebbene possa sembrarlo, non è affatto una lirica d’amore, bensì una riflessione sulle illusioni della giovinezza e le disillusioni della maturità. Nella lirica Leopardi colloquia con Silvia, una giovane identificata in seguito con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di famiglia e compagna di giochi dell’autore, venuta a mancare in giovane età di tubercolosi, confrontando le loro due esperienze di gioventù. Ella è infatti rappresentata nel pieno di una giovinezza spensierata, gioiosa e colma di speranze per il “vago avvenire”. L’inizio della canzone è infatti ricolmo di immagini positive e termini che riportano alla felicità e alla spensieratezza: “ridente”,” lieta”, “pensosa”, “contenta”, “sereno", ed inserita nel “maggio odoroso” (la primavera, ossia la stagione della rinascita, la vita e la speranza).
Egli si rappresenta invece chiuso nelle sue stanze, piegato sulle “sudate carte” dove spese la sua gioventù, immerso in uno studio piacevole ma talvolta faticoso, porgendo sovente l’orecchio al soave canto della fanciulla ed al rumore del suo telaio e lo sguardo all’assolato paesaggio visibile dalla finestra ed il balcone della dimora del padre. Leopardi percepisce infatti il mondo attraverso la propria stanza, attraverso il proprio mondo interiore, la propria immaginazione.
Dalla quarta strofa, dopo una breve riflessione sulla visione speranzosa della gioventù sul futuro, Leopardi torna con i piedi per terra, condotto dai propri felici ricordi di speranza al triste presente, e dunque alle sue sventure ed invoca la natura, la quale, come nel canto “La sera del dì di festa” del 1820, è vista come un’entità malvagia ed impassibile di fronte alle sofferenze umane. Ed egli la biasima per le false ed irrealizzabili illusioni a cui induce gli esseri umani. Da qui il canto prende una piega oscura e la primavera diviene inverno, la stagione della morte e della disillusione.
Leopardi dunque introduce la morte di Silvia, venuta a mancare nel fiore degli anni, prima di poter godere della sua giovinezza e prima che la stagione invernale (la maturità) giungesse a far inaridire i fiori e la rigogliosa erba della sua primavera. Allo stesso modo di Silvia sarebbe presto venuta a mancare anche la speranza di Leopardi, anch’esso privato della gioventù, qui egli utilizza infatti la metafora della speranza per alludere a Silvia. L’ultima strofa è appunto caratterizzata dall’utilizzo di parole che evocano desolazione e morte come “acerbo”, “sconsolato”, “lacrimata”,” misera”, “cadesti”, “tomba ignuda”,” morte”.
Emergono la disillusione e la delusione dell’autore sull’infruttuosità delle speranze giovanili che con la maturità scompaiono lasciando dietro di loro solo la consapevolezza della morte. Interessante è il contrasto fra l’inizio della canzone, incentrato sulla giovinezza, la bellezza, la felicità, la primavera, e la conclusione, con la quale si giunge alla morte, la tristezza, la delusione e l’inverno, questi sono di fatto i temi chiave dell’opera, assieme al concetto di ricordo, al quale l’autore attinge per quasi tutto il testo. L’intera lirica è inoltre caratterizzata da una forte impressione di vaghezza che va dall’immagine di Silvia, della quale ci vengono illustrati poco nitidamente solo lo sguardo, i capelli scuri ed il canto, facendola ricondurre alla visione petrarchesca della “donna-angelo”, al mondo esterno, che Leopardi descrive con aggettivi semplici (come “odoroso”, “sereno”, “dorate”, “quiete”) ed al quale non vengono conferiti particolari rilevanti, raccontando di una veduta quasi amena.
Tale senso di indefinitezza è dato dall’idea di Leopardi che la tendenza al vago si avvicini all’infinito, allontanandosi dalla dolorosa realtà, e lasci così spazio all’immaginazione. Il contrasto fra speranza e disillusione è scandito anche dall’utilizzo di due tempi verbali: l’imperfetto, utilizzato per esprimere i ricordi e la memoria, è il tempo dell’illusione, mentre il presente, usato dall’autore nelle sue riflessioni, è il tempo della realtà e la consapevolezza. Ciò si può osservare anche dal mutamento della sintassi, piana e semplice laddove l’autore si perde nella propria memorie, concitata e definita da punti esclamativi ed interrogativi nelle strofe dove il “ricordare” è interrotto dalla realtà, in particolare nella quarta e nella sesta strofa.
Per quanto riguarda il lessico, nella canzone Leopardi utilizza termini che si rifanno all’indefinito, come “da lungi”, “vie dorate”, “vago”... Ma anche latinismi e parole poco frequenti come “speme”, “verone”, “rimembri”, “molceva”, così come latinismi come “ostello”. Ricorrente nel testo è il gruppo di lettere “vi”, come si può osservare in parole come “fuggitivi”, “salivi”, “soavi”, “perivi”... esso è il “vi” di “Silvia” e sottolinea la sua costante presenza durante tutto il testo. Dal punto di vista metrico la canzone è caratterizzata da sei strofe di differente lunghezza composte da endecasillabi e settenari alternati e liberamente rimati, tale libertà metrica rispecchia il senso di indefinito comunicato dall’autore. Nel testo emergono inoltre differenti figure retoriche, come:
- metonimie: “sudate carte”(v.16), “faticosa tela” (v.22);
- chiasmi: “studi leggiadri [...] sudate carte”(v.15-16);
- anafore: “Che [...]che” (v.28-29), “O[…]o” (v.36), “Questo [...] questi [...] questa[...]” (v.56-59);
- personificazioni: “O natura[...]” (v.36);
- metafore: “[...]mia lacrimata speme” (v.55), “Tu pria che l’erbe inaridisse il verno” (v.40);
- enjambement: “quiete stanze” (v.7-8);
- climax: “Che pensieri soavi, che speranze, che cori” (v.28-29)
Si può notare che le anafore sono utilizzate soprattutto nei versi 4 e 6, dove il ritmo si fa più concitato.
Ho apprezzato particolarmente la natura suggestiva del lessico, l’autore ricorre infatti a termini vaghi e generici che stimolano profondamente l’immaginazione del lettore, leggendo le prime strofe si percepisce decisamente il calore del “maggio odoroso” e la serenità della giovinezza, mentre viceversa nelle ultime strofe si avvertono in modo vivido i brividi dell’inverno, il rimpianto di un tempo pieno di speranze e la consapevolezza della morte. In conclusione si potrebbe affermare che “A Silvia” proponga una visione pessimista della vita, in quanto afferma che le speranze, i sogni e le gioie della giovinezza vengano necessariamente infrante dalla maturità e questa visione può essere giustificata dall’esperienza di vita dell’autore. Tuttavia secondo il mio parere la preservazione di tale “primavera” è possibile, ma sta ad ognuno di noi far sì che tali speranze e desideri rimangano intatte e non vengano inaridite dall’”inverno”, che sebbene giunga inatteso e distruttivo, anch’esso presenta le sue bellezze.
Commenti
Posta un commento