LA SELVA DEL PECCATO - Commento al canto I (COMMEDIA, Inferno)

Questo post è il primo di una serie di sei scritti, in cui vengono verbalizzati i miei commenti ad una selezione di canti della Commedia di Dante, letti pubblicamente presso il teatro della parrocchia di San Giuseppe da Copertino (sita in Via dei Genieri 12, link del sito qui). Il parroco di questa piccola ma accogliente chiesa, Don Paolo Pizzuti, mio mentore, mio esempio di vita, mio Virgilio, mi ha dato l'opportunità di far conoscere la mia sconfinata e quasi innata passione per la poesia di Dante Alighieri ai membri della ridente comunità parrocchiale della Cecchignola. Buona lettura! 

Tra le opere di Dante la Commedia è sicuramente quella che ha incontrato il successo più pieno e duraturo. Sarà stato per la lingua in cui è stato scritto il poema allegorico-didascalico, un idioma caratterizzato dalla sapiente mescolanza di stile tragico e sermo cotidianus (come si afferma nella tredicesima lettera della raccolta epistolare di Dante, comedia est lingua in qua et muliercule comunicant), oppure per i riferimenti alla storia più recente, alla cronaca, alla cultura e all'arte del tempo che Dante visse così intesamente; è comunque un'opera che tutti conosciamo, anche superficialmente; almeno una volta nella nostra vita abbiamo avuto modo di leggere qualche terzina e spesso abbiamo necessitato di un buon commento per comprendere efficacemente la concettosità di un passaggio.



Il testo della Commedia di Dante è esso stesso un problema di non poco conto, considerano infatti che tre quarti della filologia della letteratura italiana si sono concentrati sull'individuazione dell'archetipo testuale del poema sacro del Sommo. Per farvi comprendere la complessità di questa questione, che, vi giuro, non è di secondaria importanza, voglio raccontarvi un piccolo aneddoto, relativo ad una breve conversazione avuta con mia nipote. Non so se altrove o in una pagina di questo blog, ho accennato qualcosa riguardo le mie origini abruzzesi, al fatto che io abbia trascorso la mia infanzia e la mia adolescenza a Tagliacozzo (AQ), uno dei venti borghi più belli d'Italia. Ebbene, il 6 luglio 2019 gli abitanti della mia città natale, alcuni forestieri e una percentuale irrisoria di turisti, ha accolto il Presidente della Repubblica Italiana, on. Sergio Mattarella, in visita nella ridente città marsicana per inaugurare l'esposizione permanente di una statua monumentale di Dante Alighieri, al centro dell'omonima piazza. 

Il nome di Dante infatti è legato a quello di Tagliacozzo, in quanto il poeta lo ha citato in un distico del XXVIII canto dell'inferno (vv.18-19), per rievocare la piana in cui nel 1268 si scontrarono le truppe di Carlo D'Angiò, nuovo sovrano del meridione della Penisola, e gli eserciti di Corradino di Svevia, figlio naturale dell'Imperatore Federico II: ... e là da Tagliacozzo/dove per poco vinse il vecchio Alardo. La mia nipotina Michela, non propriamente un'estimatrice di Dante né un'amante della letteratura italiana, insieme ad un nutrito gruppo di compaesani, nel momento stesso in cui venne scoperta la statua e la sottostante epigrafe commemorativa (sulla quale era riportato il suddetto verso dell'inferno con una piccola variante, ...e là da Tagliacozzo/dove per poco vinse il vecchio Alardo), esclamò convinta: "Ma come dove? Ove per poco...c'è un errore sulla lapide!". Furono moltissime le persone che espressero subito dopo questa medesima osservazione. Ma siamo sicuri che si tratta di un errore? No perchè la questione non può essere risolta con troppa facilità, consultando una qualsiasi edizione a stampa della Commedia. Ogni edizione critica (badate bene, sto parlando di edizione critica, non di edizione commentata) è stata il risultato del confronto di un considerevole numero di manoscritti che ancora oggi ci testimoniano il testo di Dante. Per la Commedia in particolare si contano più di 800 testimoni manoscritti! Una tradizione copiosissima, più ingente di quella della Vulgata di San Girolamo. Tale fu il successo e la diffusione dell'opera di Dante: un testo che a partire dalla prima metà del XIV secolo è stato copiato più di ottocento volte, e ogni copia ha contribuito alla corruzione di un testo che non potrà mai essere ricostruito in un archetipo suscettibile di essere considerato senza ombra di dubbio vicino alla stesura licenziata come sua ultima volontà dallo stesso Dante. Per questo, prima di cominciare occorre formulare una dichiarazione d'intenti, e stabilire che il mio commento asseconderà il testo della Commedia di Dante contemplato nell'edizione critica a cura di Giorgio Inglese, pubblicata per i tipi della Carocci (Roma 2007).

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.3

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!6

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.9

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.12

Il poeta si trova a metà del suo percorso biografico, dato che una tradizione condivisa dal vecchio testamento e dai classici latini voleva che la durata media di un‘esistenza umana fosse di circa settant'anni. Ma Dante si riferisce a questa vita con il possessivo “nostra” che non è riferibile ad un ipotetico plurale maiestatis. Il cammino di Dante è il percorso di redenzione che ogni mortale può percorrere: dietro quel nostra di nasconde la vita di ognuno di noi. È come se il poeta volesse esortarci a prestare attenzione alle vicende che narrerà, perché il suo racconto ci coinvolge in prima persona: parla di me, di lui, di uno studente universitario, di una casalinga come del titolare di una drogheria. Tutti abbiamo almeno una volta battuto i sentieri della selva del peccato, abbiamo attraversato un periodo della nostra vita in cui proprio era impossibile individuare la retta via. Dante è un prototipo umano, è la concretizzazione materiale di un’anima che cerca Dio, soprattutto quando non c’è luce e la paura è il sentimento dominante. 

Dietro le sequenze descrittive di Dante si nasconde sempre un’allegoria. Tutte le volte che il testo indugia nella descrizione particolareggiata di una persona, di un animale, di una dinamica, significa che tra quegli endecasillabi della Commedia si nasconde un’allegoria, un significato diverso da quello letterale del dettato, foriero di un insegnamento morale. 

La condizione peccaminosa in cui versa Dante in quel 25 aprile del 1300 era particolarmente grave, così grave da arrivare quasi ad eguagliare il male estremo della morte. 

Ma proprio qui, dove Dante raggiunge il fondo, troverà del bene di cui ci parlerà attraverso il racconto delle altre cose che vi ha trovato. Lo stesso Poeta non è sicuro che ciò che ci racconterà è un’esperienza realmente accaduta o molto semplicemente un sogno, una visione ispirata dal Cielo; in quel momento era assonato, non era in grado di stabilire se il sentiero che stava attraversando fosse una verace via. Ma non per questo è meno valido il messaggio contenuto nella sua opera, considerando che numerose opere dal carattere moralizzante e didascalico sono state redatte sotto forma di resoconti di visioni.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,15

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.18

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.21

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,24

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.27

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.30

Il Poeta giunge quasi alla fine di quella selva, la cui oscurità gli ha “compunto il cuore”, gli ha provocato quella medesima compuntio cordis che caratterizza lo stato d’animo di chi contempla con mestizia e profondo pentimento la propria condizione di peccatore. Al termine della selva comincia l’erta di un colle che molto probabilmente è la rappresentazione naturalistica della condizione umana, apparentemente sempre statica e immobile, ma costantemente illuminata dalla luce di Dio. Il nostro padre celeste ci sostiene, ci illumina con la luce della sua grazia anche quando non ce ne rendiamo conto. Questa immagine rassicura il poeta, converte in speranza la paura addensata nel cuore del pellegrino smarrito. Nei versi successivi incontriamo la prima delle tante similitudini della Commedia, così raffinata che sembra una formula di derivazione virgiliana: l’immagine del naufrago che guarda con occhi ancora pieni di paura le acque del mare dopo essere stato il testimone sgomento di una violenta tempesta ci rimanda alle peregrinazioni di Enea per mare, prima di poter finalmente approdare alle coste del Lazio. 
Dopo aver tirato un sospiro di sollievo Dante prosegue il suo cammino con la scalata incipiente del colle, verso la cima irrorata dai raggi del sole (pianeta deriva dal latino tardi planeta, ovvero veste che avvolge; per Dante il sole è una sfera concentrica alla terra, costituta da etere incorruttibile e nella quale è incastonato uno specchio di luce attraverso cui Dio illumina le giornate degli uomini). 

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;33

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
36

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino39

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle42

l’ora del tempo e la dolce stagione;

I guai di Dante cominciano quando il suo cammino di salvezza viene insidiato da fiere selvatiche. L’uomo medievale non era propriamente un attivista per i diritti degli animali: un foglio di pergamena costava la vita di quindici agnelli e la più eloquente rappresentazione della vittoria sul male era la composizione che incornicia i portali di numerose cattedrali romaniche e che in gergo viene definita leone stiloforo. Ogni animale selvaggio era simbolo di un determinato peccato. Dante in questo primo canto rappresenta quelle tre tendenze peccaminose che riteneva fossero il suo tallone d’Achille. Le temibili fiere che rappresenterà sono in realtà quei peccati che Dante riteneva più rappresentativi della sua terrestrità, della sua condizione di uomo peccatore. Il primo di questi, la lussuria, è il peccato più diffuso tra i membri del consorzio umano: prova ne sono le innumerevoli macchie (maculae) che ricoprono il suo manto. È un peccato in cui è molto facile incorrere (ecco perché il poeta ci dice che è leggiera e presta molto); ma, allo stesso tempo, è una condizione peccaminosa facile da superare (sì che ben sperar m'era cagione di quella fera la gaetta pelle). Dante ci vuole dire che indugiare in pensieri lussuriosi è quasi naturale, ma l'uomo dispone di ragione ed autocontrollo sufficienti per risintonizzare la sua mente su pensieri più pudichi. Sarà che è l’alba, il sole sta per sorgere in corrispondenza con la costellazione dell’ariete (vv. 38-40: con quelle stelle/ ch’eran con lui quando l’amor divino/ mosse di prima quelle cose belle) e la lonza ha davvero un bell’aspetto; dopo tutto con quel mantello maculato non può essere una belva molesta.

ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.45

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.48

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,51

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
54

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;57

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.60

Ed ecco che il breve istante di quiete viene scosso dall’apparizione di un leone, che sembra slanciarsi contro il povero Dante. Ha un portamento fiero e impettito: la testa alta e la fame rabbiosa sono i requisiti fisici che ci consentono di indentificare nell’immagine di questa fiera l’allegoria della superbia, del peccato di cui Dante si sente colpevole in prima persona. La superbia è il peccato dei sapienti, dei filosofi, di coloro che avevano gli strumenti culturali e linguistici per leggere ed interpretare trattati e testi dall’Antico Testamento. È l’errore in cui incorrono coloro che credono di poter svelare le verità ultime, di comprendere i dogmi con gli strumenti della logica e della metafisica. Il senso di colpa di Dante per la sua superbia lo perseguiterà per tutta la sua vita, dentro e fuori la Commedia (ad es nel canto III del Purgatorio, ai vv. 37-39, Virgilio apostrofa Dante con queste parole: State contenti, umana gente, al 'quia',/ché, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria.). Nel passaggio narrativo del leone della superbia c’è un lezione che ha diviso gli studiosi incaricati di ricostruire l’archetipo del canto I: è giusto inserire nel testo sì che parea che l’aere ne temesse oppure sì che parea che l’aere ne tremesse? Mi sento di condividere la scelta di Giorgio Petrocchi e Giorgio Inglese che nelle loro rispettive edizioni critiche hanno optato per sì che parea che l’aere ne tremesse, dato che per un uomo del basso medioevo anche l’area può tremare (non a caso in un sonetto di Guido Cavalcanti si legge Chi è questa che ven, ch’ognom la mira/ che fa di chiaritate tremar l’aere).

Ma il leone non è solo! È accompagnato da una lupa, una belva di gran lunga meno famelica del leone, ma il cui aspetto sconvolge Dante nel profondo: la sua magrezza è esagerata, sembra carica di tutta la fame del mondo. È come se non si sarebbe accontentata di nessuna vivanda, alcun pasto avrebbe potuto saziare la sua fame smisurata. 

Si tratta dell’allegoria della cupidigia, il peccato dei peccati, l’errore umano che fa viver le genti grame. Non ha caso Dante sceglie per la rappresentazione di questa tendenza peccaminosa l’animale simbolo di Roma, capitale dell’Impero Romano e della Cristianità. La scelta della lupa è una chiara ed eloquente critica alla corruzione e alla sete di ricchezza che erano alla base della crisi del Papato e dell’Impero. 

La visione della lupa atterrisce Dante così intensamente che il poeta si volge indietro per rifugiarsi in quella foresta del peccato da cui stava cercando così faticosamente di uscire.  D’altronde di fronte alla corruzione, alla carenza di ogni valore umano, in un’epoca segnata dal capitalismo selvaggio e dal consumismo, ci cadono le braccia, non riusciamo a vedere la luce in fondo al tunnel, ci sentiamo immersi in una dinamica di corruzione e caduta da cui sentiamo di non poter uscire.


Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.63

Quando vidi costui nel gran diserto,
"Miserere di me", gridai a lui,
"qual che tu sii, od ombra od omo certo!".66

Rispuosemi: "Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.69

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.72

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.75

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?".78



Una sagoma umana, che per lungo silenzio pareva fioca (il lungo silenzio è un riferimento al fatto che Virgilio sia un poeta latino di età augustea morto da tantissimo tempo, oppure Dante vuole dire che la sua voce era roca in quanto aveva molto a lungo taciuto?), si presenta di fronte a Dante stesso. Il poeta fiorentino non esita a gridare aiuto, sollecitando la sua compassione. E la sagoma umana si presenta, svelando di non essere un uomo in carne ed ossa ma di esserlo stato. Si tratta di Virgilio, poeta latino vissuto nel I secolo a.C., punta di diamante del circolo di Mecenate, autore di opere che hanno rappresentato un modello per intere generazioni di poeti. Virgilio è una autentica auctoritas per gli intellettuali dell’età di mezzo, quasi quanto Aristotele. Viene considerato non solo un poeta abilissimo, ma anche un filosofo, un sapiente, un profeta: la profezia della quarta egloga delle Bucoliche, relativa alla nascita di un puer che avrebbe ristabilito l’età dell’oro dopo un lungo periodo di guerra e sofferenza, venne da molti interpretata come l’intuizione della futura nascita del Redentore. 

Virgilio chiede a Dante perché non sale sul dilettoso monte, perché indugia a tanta noia, parola che ha un significato ben diverso da quello che assume nell’italiani dell’uso comune. La forma nominale noia, prima di subire un processo di variazione semantica, manteneva il significato originario contenuto nella sua base etimologica, ovvero il franco provenzale enoja, forma contratta della perifrasi latina IN ODIO HABERE; pertanto anche in Dante la parola noia induca una condizione di angoscia e di estrema sofferenza.


"Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?",
rispuos’io lui con vergognosa fronte.81

"O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.84

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.87

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi".90


Dante riconosce subito Virgilio, a buon intenditor poche parole. Dante risponde con vergognosa fronte, con quel timore reverenziale con cui spesso ci relazioniamo a uomini e donne autorevoli. Virgilio viene definito degli altri poeti onore e lume, il mio maestro, il mio autore, famoso saggio. Credo che il primo canto sia la prima delle poche volte che Dante pronuncia il nome del suo maestro (il più delle volte ricorre ad una perifrasi per identificarlo). Dante ha forgiato il suo stile, la sua poesia su quella di Virgilio. Da notare che la parola stilo indica anche la penna come metonimia dell’atto dello scrivere poesia. Dante si fida di Virgilio, non esita a chiedergli aiuto. 


"A te convien tenere altro vïaggio",
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
"se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;93

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;96

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.99

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.102

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.105

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.108

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.




Virgilio rivela a Dante che il suo percorso di salvezza procederà per altre strade. Il peccato di cupidigia, la condizione peccaminosa in cui è incorso Dante è così profonda che il poeta fiorentino se vuole uscirne dovrà intraprendere un percorso di redenzione. La lupa è l’espressione di uno stato di crisi e corruzione che affligge il tempo di Dante. Solo un valoroso veltro, un cane da caccia, riuscirà a vincerla e ad eliminare la sua influenza nefasta sul mondo dei vivi. Chi si nasconde dietro questo famigerato cane da caccia? Vi risparmio le numerose interpretazioni che si sono stratificate sul personaggio in questione. Dante stesso ci offre qualche indizio: farà morire con doglia la lupa della cupidigia, non nutrirà il desiderio di beni materiali (non ciberà né terra ne peltro), diffonderà le virtù di sapienza, amore e coraggio e la sua nazione è collocata geograficamente tra feltro e feltro. Il feltro è un tessuto molto particolare, poco pregiato, tipico delle umili vesti dei monaci affiliati agli ordini pauperistici. Senza indugiare sulla rassegna delle interpretazioni, offro in questa sede quella più semplice ed attendibile: il primo feltro induca Feltre, città in provincia di Belluno; il secondo indica Montefeltro, nelle Marche. La nazione del veltro è da collocare in Padania. In particolare, Milano è la città in cui l'imperatore del Sacro Romano Impero Germanico riceve la corona di Re d'Italia. Dante probabilmente sta indicando un imperatore, forse Arrigo VII di Lussemburgo sulla cui azione risanatrice riponeva la massima fiducia. Arrigo VII ristabilirà l’autorità imperiale in una Italia dilaniata dalle lotte intestine, sarà la salute di quella umile Italia per la quale sacrificarono la vita i martiri pagani contemplati tra gli esametri dell’Eneide di Virgilio. Il veltro rilegherà la lupa nuovamente all’Inferno, dove consumerà i suoi giorni in compagnia della materna invidia.



Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;114

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;117

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.120

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;123

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.126

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!".129

E io a lui: "Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,132

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti".135

Allor si mosse, e io li tenni dietro.



Virgilio è profondamente convinto che la migliore uscita di emergenza per Dante siano i regni dell’Oltretomba. Nel corso di questo viaggio incontrerà anime che invocano urlando la morte dell’anima e altre che sopportano l’espiazione dei loro peccati con gioia e speranza, perché hanno la certezza di essere accolti successivamente tra i beati. Virgilio chiarisce a Dante che la prosecuzione del suo percorso attraverso i cieli del Paradiso avverrà con un’altra guida (Virgilio non ebbe modo di osservare la legge di Dio e non può accedere al Regno dei cieli). Virgilio è inoltre un personaggio allegorico, credo che ciò sia evidente: impersona la ragione umana, l’intelletto, la cui efficacia è limitata nella comprensione dei misteri divini, dei dogmi. Per proseguire il suo cammino di salvezza ed avvicinarsi definitivamente a Dio, sarà necessario seguire i voli e le indicazioni di Beatrice, la protagonista della Vita Nova, colei che più di ogni altro essere vivente è la dimostrazione dell’esistenza di Dio, la personificazione della Teologia.

In questi endecasillabi Dante pronuncia la prima di una serie infinita di perifrasi con cui definisce il Signore. Troverà il coraggio di pronunciare il nome di Dio solo nel II canto del Paradiso, quando la vicinanza fisica ed interiore con l’Altissimo consentirà al poeta fiorentino di rapportarsi a lui come ad un padre amorevole e protettivo che aspetta un figliol prodigo che sta tornando a casa. 




BIBLIOGRAFIA


  • Dante Alighieri, Commedia, Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Carocci editore, Roma 2007.
  • Saverio Bellomo, Filologia e critica dantesca, Editrice La Scuola, Brescia 2012.
  • Alessandro Marchi (a cura di), Antologia della Divina Commedia, Pearson-Paravia, Milano 2014.







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