IL VERISMO IN ROMANESCO DI GADDA: UN CONFRONTO CON "RAGAZZI DI VITA" DI PIERPAOLO PASOLINI.

 


IL NEOREALISMO

Nella storiografia della letteratura italiana, assai spesso, etichette e nomenclature vengono apposte su manifestazioni artistiche tra loro eterogenee, dando una parvenza di uniformità, di "scuola", "manifesto programmatico", utile esclusivamente a facilitare la memorizzazione di contenuti fondamentali e i riferimenti degli studiosi. Stessa sorte è toccata alla parola Neorealismo, che definisce l'insieme delle opere e delle riflessioni filosofiche di poeti e narratori, i quali, nell'Italia del secondo dopoguerra, riscoprono un vivo interesse per lo stile di vita, le abitudini, la cultura e la lingua delle classi sociali meno abbienti, che popolavano le periferie delle grandi città italiane nel periodo storico immediatamente successivo al secondo grande conflitto mondiale.
Dopo un ventennio di grande poesia, il romanzo è di nuovo lo strumento di indagine della realtà circostante e il genere letterario più amato dalla nuova classe dirigente postbellica e dall'intellighenzia nazionale.
L'italiano regionale ed il dialetto vengono percepiti come un'alternativa alla raffinata lingua della letteratura; viene rappresentato e reso memorabile anche ciò che è sporco, brutto, cattivo, disonesto e squallido; i protagonisti di romanzi e racconti, i destinatari di liriche e poemetti, sono prostitute, sguattere, operai, ladruncoli, uomini e donne che vivono alla giornata, di espedienti, in una continua lotta per la sopravvivenza all'interno di una società capitalistica, votata al culto del consumismo e della materialità (cfr. Contini, 1968; Segre, 1996; Pecoraro, 1998).

Come si inserisce all'interno di questa temperie culturale Carlo Emilio Gadda? Se può risultare difficile, e quasi forzato, parlare di neorealismo in riferimento allo scrittore-ingegnere brianzolo, dei suoi unici due romanzi, relativamente completi, quello che indubbiamente rivela un'attenzione nei confronti dell'esistenza delle classi sociali meno abbienti è sicuramente il celeberrimo Pasticciaccio. Le sperimentazioni linguistico-dialettali sono senza dubbio caratteristiche anche di altre opere gaddiane, ma il binomio dialetto/fascino del proletariato appartiene solo al suddetto saggio della sua vis narrativa

GADDA E PASOLINI ALLO SPECCHIO

Colui o colei che si occupa di storia della narrativa italiana del Novecento, e in particolar modo della produzione del periodo della ricostruzione post seconda guerra mondiale, non può non evidenziare delle analogie che accostano, anche sulla base dell'analisi formale del Pasticciaccio e di Ragazzi di vita, l'esperienza umana e letteraria di Carlo Emilio Gadda a quella di Pier Paolo Pasolini. 

Nonostante le macroscopiche differenze relativamente alla poetica, allo stile e alla formazione culturale, Carlo Emilio Gadda e Pier Paolo Pasolini, infatti, possono essere accomunati dai lettori contemporanei da alcuni fattori:

1) entrambi provengono dall'Italia settentrionale e, giovani, si sono trasferiti a Roma (Pasolini bolognese con madre friulana, Gadda brianzolo). Entrambi si sono immersi nella quotidianità della capitale d'Italia, hanno assorbito la lingua con cui romani e romane interagivano tra di loro negli anni Cinquanta;

2) entrambi hanno avuto un esercente la potestà genitoriale che ha reso travagliata la loro giovinezza: il padre di Pier Paolo reagì malissimo alla scoperta dell'omosessualità del figlio, che insieme all'amatissima madre venne messo alla porta e costretto a trasferirsi dallo zio Giorgio Colussi, residente a Roma, in una casa popolare del Ghetto ebraico (Cara Silvana, [....]. Tu non sai a cosa si è ridotta mia madre. Io non posso più sopportare di vederla soffrire in questo modo disumano e indicibile. Ho deciso di portarla domani stesso a Roma, all'insaputa di mio padre, per affidarla a mio zio; io non potrò stare a Roma, perché mio zio mi ha fatto capire che non può tenermici, ma spero che per mia madre la cosa sarà diversa. - Lettera a Silvana Mauri, datata Casarsa, 27 gennaio 1950; per il testo completo della lettera si veda il catalogo della mostra Pasolini Roma, 2015: 16); la madre di Carlo Emilio, incline questi ad una vocazione letteraria, costrinse suo figlio a frequentare la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano;

3) entrambi hanno descritto bozzetti minuziosamente realistici nei loro rispettivi capolavori di prosa narrativa, tutti e due pubblicati negli anni Cinquanta: Ragazzi di vita (1955) e Quer Pasticciaccio brutto de Via Merulana (apparso per la prima volta in cinque puntate nel 1946 sulle pagine della rivista "Letteratura", pubblicato undici anni dopo, nel 1957, in un volume unico), opere in cui, appunto, il romanesco di terza generazione, messo in bocca ai protagonisti principali delle vicende narrate, viene trascritto con attenzione quasi filologica, cercando di riprodurre graficamente l'ortoepia dialettale; da notare: entrambi le opere vennero edite per i tipi di Garzanti (Milano);

4) entrambi hanno imparato il romanesco come L2, ovviamente non attraverso dei percorsi di istruzione formale, ma attraverso l'esposizione diretta e la viva frequentazione di parlanti nativi (Pier Paolo ebbe come "consulente linguistico" il pittore edile Sergio Citti, Carlo Emilio intrattenne un sodalizio culturale con Mario Dall'Arco, architetto capitolino e poeta dialettale provetto);

5) infine, entrambi hanno utilizzato, nei romanzi citati al punto 3, le medesime tecniche narrative, molto probabilmente perché i due narratori, apparentemente così diversi, quasi agli antipodi soprattutto per l'eterogeneo livello di socialità, hanno guardato alle medesime fonti. 

La differenza più macroscopica tra i due romanzi, al di là della trama, della tipologia narrativa in cui inserirli e degli intenti programmatici che si proponevano di sviluppare i loro due rispettivi autori, è che, se Ragazzi di vita è il romanzo d'esordio di un giovane Pier Paolo Pasolini che nel 1957 ha 35 anni, il Pasticciaccio rappresenta l'opera della maturità letteraria di Carlo Emilio Gadda, il quale grazie a questo suo piccolo capolavoro conosce la fama come scrittore soltanto alle soglie della senilità (Cfr. Pecoraro, 1998: p. VIII: «Scrittore presto conosciuto dai letterati e dai critici (...) conosce la fama con l’edizione in volume del Pasticciaccio del 1957, ma la complessità della scrittura tende più a renderlo celebre che a farlo leggere».).

IL ROMANESCO DI RAGAZZI DI VITA E DEL PASTICCIACCIO

Gadda e Pasolini, come altri scrittori attivi in questo specifico frangente temporale, ricorrono alla grammatica del parlato, dislocazioni, frase scisse, ellittiche, anacoluti. La più evidente nota di originalità, però, è nell'introduzione di dialoghi in dialetto, nella fattispecie il romanesco ("Il dialetto appare, negli anni trenta, anche come ingrediente primario di una miscela esplosiva, volta più a rifiutare e parodiare la realtà che a rappresentarla fedelmente", cfr. Coletti, 1993).

Le vicende narrate nei due romanzi, infatti, si svolgono entrambe a Roma, ma vengono cronologicamente dislocate in due periodi storici, adiacenti sulla linea del tempo, ma separati tra loro da poco più di un decennio (il Pasticciaccio nel 1927, in pieno ventennio fascista, come si evince da alcuni eloquenti riferimenti ad eventi realmente accaduti in quell'anno: "C'era di gran visite di plenipotenziari dell'Irak e di capi di stato maggiore del Venezuela, in quei giorni, un andirivieni de gente piena de patacche; riversati a branchi sul molo Beverello dagli scalandroni d'ogni più roco piroscafo"(cfr. Pasticciaccio, p. 57); Ragazzi di vita, genericamente nell'immediato dopoguerra, anche se mancano, in questo senso, indizi piuttosto espliciti). Il romanesco che viene scimmiottato dai due, senza la precisione quasi scientifica di un Giuseppe Gioacchino Belli nella trascrizione dell'ortoepia, corrisponde approssimativamente alla varietà linguistica parlata dagli abitanti della Capitale nella prima metà del XX secolo. Per Gadda e Pasolini si tratta di una vera e propria L2: l'intento di procedere con un certo mimetismo linguistico impone ai due autori di apprendere da zero la lingua di Roma. Tuttavia, nonostante il romanesco sia per i suddetti scrittori alla stregua di una lingua straniera (e non ne avrebbero mai padroneggiato l'uso), il loro strenuo impegno emerge dal livello di riconoscibilità dei tratti caratteristici del romanesco, nei passi i cui l'autore è ricorso al dialetto. In particolare, si riconoscono: 

1) il dileguo della laterale nei derivati di ILLE (cioè l'articolo determinativo, il clitico di terza persona e il dimostrativo di terzo grado di approssimazione; legge Porena, 1924) - J'ariccomanno, qua, er nostro sor Filippo. M'oo tratti bene. (Pasticciaccio, p. 48);  “Mo quello fa ‘a spia a quarcheduno”, fece perdendo di botto tutta la sicurezza Alduccio, con voce spaventata (Rdv, p. 128).

2) la geminazione intrinseca dell'occlusiva bilabiale sonora intervocalica [b] e dell'affricata prepalatale sonora in posizione debole (la g di gelato) - Li funerali, contro l'aspettativa o pe mejo dì la speranzella della polizzia, nun fecero fa un passo avanti a l'indaggine, ma soltanto a le chiacchiere. (Pasticciaccio, p. 139); "E cià pure la ciambella de gomma" sospirò "che senza quella j'abrebbe fatto infezione er decùbbito". (Pasticciaccio, p. 305); 

3) l'affricazione della sibilante davanti liquida, nasale o vibrante - Decorosamente inguinato nella veste, reggeva dalla manca, insieme cor cappello novo, una busta de cuoio nero de quelle che cianno certe vorte li preti, p'annà da l'avvocati a faje capì la ragione, de chi è. (Pasticciaccio, p. 106)

4) varie protesi ed epentesiEr rosbiffe ar sangue è la specialità de Peppì ( Pasticciaccio, p. 43); “Va bbe, ma tu èssi pronto”, fece il Begalone, andando su per la scala. (RdV, p. 186)

5) la mancata chiusura della media palatale pretonica - Renda, sicché, renda il mal tolto, sto babbione de cacciatore, de viaggiatore in tessuti (Pasticciaccio, p. 97); “Me ce trova domani, quanno torna”, brontolò tra sé sora Adele, “a cocco bello!”. (Rdv, p. 57).

6) la chiusura in direzione palatale della a postonica nei proparossitoni - si, insomma, lei e il Barbezzi-Gallo, (...), sentiveno er bisogno de congratulasse reciprocamente, bicchierino alla mano. (Pasticciaccio, p. 85); “Ammazzete”, fece il Lenzetta diventando ancora più rosso con tutt’e due le mani tese verso di lui, “che, no lo so?” (Rdv, p. 134).

8) il rotacismo della laterale preconsonantica (sia in fonosintassi che all'interno di parola) - Era una giornata meravigliosa: di quelle splendidamente romane che perfino uno statale di ottavo grado, ma vicino a zompà ner settimo, be', puro quello se sente aricicciasse ar core come un nun socché, un quarche cosa che rissomiglia a la felicità (Pasticciaccio, p. 55); “Ma quale disturbo”, fecero i due, correndo giù per la scesa dell’argine, e siccome il vecchio veniva giù piano, il Lenzetta disse al muro dell’osteria: “La vita è amara pe’ chi ha li piedi dorci.” (Rdv, p. 133).

Largamente rappresentato è l'assimilazione progressiva del nesso nd>nn, mentre non vi è traccia, in entrambe le opere, dello scempiamento di -rr-.

UNA NARRAZIONE CORALE

Il neorealismo in fondo è il "verismo" del secondo dopoguerra. Gli anni Cinquanta sono per il nostro paese un periodo denso di profonde trasformazioni culturali e sociali: innanzitutto, c'è un paese da ricostruire; inoltre, le emergenze sociali, le povertà da tamponare sono troppe. Il Regno d'Italia è stato trasformato in una repubblica fondata sul lavoro per volontà dei padri e delle madri costituenti, e i membri della nuova classe dirigente avrebbero dovuto ispirarsi ai principi fondamentali della nuova costituzione democratica. Ma, sebbene il paese si stesse proiettando verso un futuro fatto di crescita e benessere materiale, non era esiguo il numero degli uomini e delle donne, abbandonati e abbandonate nelle periferie sporche, squallide e degradate delle grandi metropoli, oppure nelle campagne meridionali. In parole povere, gli anni successivi al secondo grande conflitto mondiale furono il terreno fertile per la genesi di opere di arte narrativa, in cui si realizzasse il connubio realismo-povertà.
Come avvenne per gli scrittori della "stagione verista", e in particolar modo per Giovanni Verga, l'anti-Zola (Baldi, 1980), anche tutti i narratori antifascisti, intellettualmente impegnati, che con le loro scritture hanno immortalato il male di vivere del sottoproletariato urbano e rurale delle nuova Italia, Repubblica fondata sulla democrazia e il lavoro, constatarono amaramente che, nel nostro paese, la cultura e le belle lettere non avrebbero potuto in alcun modo cambiare dei destini inesorabili (Bollati, 2011; sulla mancata denuncia sociale in Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini si veda Tricomi, 2020: 79-85). Anche per Giovanni Verga i membri della famiglia Toscano non avrebbero mai potuto cambiare le sorti del loro destino di miseria e subalternità
(Cfr. Pecoraro, 1989: 137, "Nonostante le forti differenze nella visione del mondo e della conoscenza, la profondità della rappresentazione gaddiana degli umili, quanto alla sfera etica, è assimilabile al coraggio di verità verghiano").
Nel Pasticciaccio e in Ragazzi di Vita, Gadda e Pasolini offrono ai loro rispettivi lettori la prova inconfutabile dell'avvenuto e definitivo assorbimento delle tecniche narrative, sperimentate per la prima volta nei romanzi "veristi". Si tratta di espedienti linguistici e testuali in grado di velare la presenza del narratore e rafforzare gli elementi connotativi del racconto delle vicente narrate; grazie alla "narrazione corale" il narratore "ingrana il pilota automatico" e la storia si costruisce da sola:

- A Riccetto, - fece il Caciotta tirandolo per una manica, - sta a sentì sto pezzo... - Te ricordi, a Ernestì, - disse ridendo, - che tremarella 'a notte, da 'e parti de Bagni de Tivoli, là, che dormissimo co na mazza sotto 'a capoccia? - Ernestino rise. - Sto cocommeraro, - spiegò il Caciotta al Riccetto, - c'aveva un maiale a Bagni de Tivoli, i' una baracca in mezzo ai campi... Mo siccome che je facessimo bona guardia a li cocomeri, pensò de mannacce a fa' a guardia a sto maiale. E c'aveva pure un conijo, là in quer posto. Na sera ariva 'a madre der cocommeraro e dice: «Annate a Bagni, - dice, - a comprà mezzo chilo de pane». Capirai, due chilometri annà e due ritornà... Già era buio... Alora 'a madre der cocommeraro, mentre che noi eramio pe' strada, prende sto conijo, l'ammazza, lo coce e se lo magna. Poi prende l'ossa, scava na buchetta, e ce le mette dentro... Sta disgrazziata! Alora arivamo tutt'e ddue, e annamo subito a vedè er conijo e er conijo nun c'era più. Poi ariva er cocommeraro, er principale, e dice: «Er conijo?» Alora io e Ernestino qqua je avemo detto: «Boh, semo iti a comprà er pane e quanno semo rivenuti er conijo non c'era più». Alora er principale: «Nun ce poteva annà uno solo?» Noi je avemo risposto: «Eh, annacce uno solo, c'avevamo paura, e alora ce semo iti tutt'e ddue». Alora er principale tutto incazzato ha cacciato dalla saccoccia cinquecento lire: «Alora siete licenziati tutt'e ddue, e nun ve fate più vede davanti a li piedi mia, se no ve pijo a carci!».
«Ma che ce fregava a nnoi, - continuò tutto contento, - se ne semo riiti a Pietralata, a fà a botte co l'artri regazzini de 'a borgata, pe esse presi a lavorà ar circo... te la ricordi Ernestì?... co li leoni... 'e tigri... E que'a vorta ch'è scappata Rondella, 'a cavalla maremmana, che je semo corsi dietro tutta 'a notte, pe li prati dietro Pietralata e l'avemo acchiappata che se stava a fa' er bagno su l'Aniene! (Ragazzi di vita, pp. 90-91)

Ampie sequenze dialogiche consentono al narratore di cedere la parola ai personaggi sulla scena, che svelano informazioni e particolari privati sui protagonisti della storia e consentono ai lettori di conoscerli direttamente, senza alcuna intermediazione di terzi (funzionali ad una narrazione corale sono anche alcuni inserti, come quello relativo all'interrogatorio della Ines Cionini, "nel corso del quale il 'coro' gaddiano irrompe con esiti altissimi", cfr. Seroni, 1969: 82). L'efficacia di siffatta tecnica narrativa, inoltre, viene implementata nel Pasticciaccio dalla originale commistione di romanesco e di un'imprecisata varietà centro-meridionale, che non sarebbe corretto etichettare come napoletano. Si veda il seguente scambio di batture tra il commissario Ingravallo e un inquilino del palazzetto di Via Merulana, dove inizialmente avviene una rapina di oggetti di valore:

«Ma le due revulverate l’avite sparate vuje?» fece Ingravallo. «Che le pare, sor commissario! che so’ un regazzino?… da sparà così a casaccio?» «Ma avevate tentato.» «Tentato: tentato è una parola. Er revòrvere mio nun è come quello de li delinquenti… che spareno sur serio. Questo, sor commissario, è er revòrvere d’un galantuomo. Io… so’ stato guardia giurata, da giovinotto: e me pare che l’arme le so trattà mejo de tanti artri. Io… io so’ padrone de li nervi mia…» Il ladro aveva tagliato la corda. Per un pelo: «Ma un’artra vorta nun ce la fa.» (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, p. 34).

Il narratore del romanzo di Gadda non cessa mai del tutto di proferire parola, ma dalle sue considerazioni sui protagonisti degli eventi narati e sulle dinamiche dei medesimi, si evince che egli sia  un fine psicologo, profondo conoscitore della natura intima dei personaggi in scena. Chi è dunque costui? Gadda finge di essere testimone oculare e parte inegrande della commedia umana che sta descrivendo? In che modo riesce a passare dall'uso di una lingua raffinata e ricercata alla selezione del napoletano o di altri dialetti?

LO STRANIAMENTO E LA REGRESSIONE DEL NARRATORE

L'attenta analisi del personaggio rappresentato; un narratore extradiegetico che, però, si mescola e si confonde di frequente nel gruppo degli attanti, l'utilizzo del dialetto, anzi dei dialetti, delle lingue locali che costituiscono l'idioma materno di Ingravallo e di tutti gli altri: sono elementi che facilmente predispongono l'autore ad avvalersi di due procedimenti narrativi, non ignoti alla tradizione letteraria italiana, e che, in un certo senso, sono l'uno la conseguenza dell'altro, ossia lo straniamento e la regressione del narratore (Ponzi, 1987). Riscontrabile già nel testo dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, lo straniamento viene solitamente ricondotto alla prosa più originale di Giovanni Verga. Il narratore, esterno alle vicende rappresentate, sceglie consapevolmente di non esserne estraneo; dimostra, anzi, di saperne quanto ne sa uno qualsiasi dei protagonisti del suo racconto; adotta modi di pensare, pregiudizi, convinzioni, schemi mentali e bias cognitivi, propri dell'universo, plausibile e verosimile, dislocato sul piano narrativo; finge di essere un'altra persona e, dal momento che è possibile immedesimarsi perfettamente soltanto in ciò che è più piccolo e meno complesso, ogni consapevole e volontaria alienazione è sempre una regressione (si veda il celebre esempio, proposto dalla novella di Giovanni Verga, Rosso Malpelo, opera universalmente considerata inaugurale del Verismo italiano).
Anche Gadda e Pasolini, i quali guardano alle novelle e ai romanzi di Verga come ricettacolo di modelli narrativi da riprodurre e rendere attuali, ricorrono ai suddetti espedienti nei loro rispettivi romanzi degli anni Cinquanta (che Gadda guardasse alle esperienze del Naturalismo francese e del Verismo emerge chiaramente dal testo di alcune interviste rilasciate dall'autore stesso e citate in Vela, 1993, e Baldi, 2018). In Pasolini, straniamento e regressione si declinano nell'adozione, da parte del narratore, di sostantivi, aggettivi esornativi, forme verbali, costrutti ed enunciati, presi in prestito dal repertorio linguistico romanesco. Il suo narratore, però, a differenza di quello del Pasticciaccio, compie la metamorfosi della sua identità con meno convinzione, con meno mordente. D'altronde, in Ragazzi di vita il romanesco puro compare solo nei dialoghi; le spie dei suoi tratti sono di gran lunga meno ricorrenti in mezzo alle parole del narratore. Nell'opera di Gadda, in cui l'adozione della varietà centromeridionale si intervalla alla lingua di Roma, la mescidanza linguistica è la cifra stilistica più originale e dominante del narratore, anzi i ricorrenti cambi di registro si susseguono con un ritmo incalzante, ai limiti della schizofrenia e del bipolarismo. Un paio di esempi chiariranno la prassi narrativa di Gadda.
Ad incipit del Capitolo 7, troviamo il commissario Ingravallo che pasteggia nel suo ufficio con una tristissima “minestrucola” (p.177), mentre il “superbrigadiere centauro”(p. 176), Pestalozzi, dopo aver chiesto al questore, il dottor Funi, di potersi adeguatamente rifocillare, consuma un pasto molto più soddisfacente in una rosticceria nei paraggi. Il narratore extradiegetico commenta la scena: “Tutto il merito, ora, ai carabinieri di Marino. “Sti lanternoni d’o tteate ‘e Pulcinella”. Pestalozzi cenò di buon appetito a ‘o tavolino de marmo: a via der Gesù: del Maccheronaro: dove ce l’aveva accompagnato Pompè: lo Sgranfia, come lo chiamavano, che fungeva pure da maestro de cerimonie, a Santo Stefano, l’opportunità richiedendo” (pp. 176-177). L’appellativo spregiativo tra virgolette metalinguistiche sarà pure farina del sacco linguistico di Ingravallo, ma le successive frasi, cariche di ironia, trascritte in napoletano, sono prodotte dal narratore, il quale, in questo modo, cerca di imitare la predisposizione d’animo del protagonista di questa sequenza. Il narratore dà voce alle frecciatine ironiche del commissario sul prestigio degli ambienti in cui si svolge l’attività commerciale del “maccheronaro” (‘o tavolino de marmo) e al contegno dello Sgranfia nei confronti del carabiniere centaturo (fungeva pure da maestro de cerimonie). 

Successivamente, nella breve sequenza dialogica, dell’interrogatorio di Ines da parte del dottor Funi, il poliziotto chiede all’interrogata dove avesse conosciuto l’indiziata Camilla Mattonari, anch’essa sospettata di essere coinvolta in qualche modo nella storia del furto presso l'abitazione della contessa veneziana Menegazzi; "pe na strada di campagna" è la telegrafica risposta della Ines. Il narratore, allora, interviene per focalizzarsi sulla reazione del questore: "Na bugiarda, che si impegolava nelle su' bugie. Fumi dubitava già fosse pazza, o qualche cosa di simile. Il tortuoso rigirio di propositi d'una contadinella che mente. (Pasticciaccio, p. 179). Sono parole del narratore, ma la marca diatopica (Na bugiarda, che si impegolava nelle su’ bugie), le conclusioni e i giudizi sono i medesimi del poliziotto. Certo, un vero parlante della Capitale avrebbe spontaneamente “affricato” l’affricata prepalatale intervocalica (busciarda/buscie, un tratto caratterizzante il romanesco che, a quanto pare, non è stato recepito né da Gadda del Pasticciaccio, né da Pasolini in Ragazzi di vita) e, certamente, non avrebbe sezionato spontaneamente il verbo impegolarsi, che comunque nel GRADIT viene censito con la marca d’uso CO (comune). Anche in questo passo, narratore e narrato si fondono e si confondono: il primo adotta la prospettiva, la mentalità e la sensibilità del secondo, e la reazione nei confronti del contegno dell’indiziata Ines da parte di entrambi è univoco.

In conclusione, in Gadda, lo straniamento e la regressione del narratore sono anche linguistiche (il narratore attivo nelle opere di Verga e i personaggi della storia non esibiscono mai il loro dialetto). Il sapiente connubio tra l'idioletto del narratore e i diversi dialetti, lingue madri dei personaggi dell'universo gaddiano, costituisce la causa prima della famigerata lingua mescidata. A proposito dello stile di Gadda, però, le posizioni della critica sono eterogenee, sicuramente affatto incongruenti con quella espressa a conclusione del presente contributo -  Ponzi, 1975: 153, "L’utilizzazione del dialetto in Gadda è ben lungi dall’essere funzionale a motivi di rispecchiamento realistico e non va, quindi, confusa come spesso è stato fatto, con la 'populistica' produzione letteraria contemporanea al romanzo. Le espressioni dialettali sono avulse dal loro contesto idiomatico e inserite, incastonate nel tessuto connettivo del romanzo, tratte da almeno due sotto-codici diversi (il napoletano e il romanesco), usate alternativamente con la lingua italiana e inframmezzate ad espressioni auliche o arcaicizzanti"; Contini, 1989: 61-67, sostiene che il fine di Gadda è l’espressività. Gadda sarebbe erede dell’espressionismo scapigliato e maccheronico, assembla in poche righe forme verbali e nominali provenienti da codici diversi e diverse varietà linguistiche; Sempre Mengaldo, 2008: 226, "Non bisogna naturalmente credere che i diversi registri siano sempre e naturalisticamente addetti a definire “voci” diverse; s’intrecciano invece con più libertà, e questo vale pure per il narrato del narratore che assume spesso elementi del romanesco per calarsi meglio nell’ambiente e per farsi un poco, a sua volta, “coro”Gadda perfeziona insomma lo stile mimetico dell'Adalgisa, ma trasferendolo da Milano a Roma e separandolo definitivamente da ogni residuo autobiograficocfr. Rinaldi, 2010: 116; "E dunque, se per un verso, l'omogenizzazione della morfologia dialettale in modalità (almeno parzialmente) istituzionalizzate, sembra sottolineare l'impegno 'scientifico' dello scrittore per una più adeguata 'veste' del romanzo, il ricorso alla vivacità lessicale della poesia del Belli testimonia la persistente cura di rafforzare il proprio intento di 'citare' in profondità, nella narrazione, il rapporto tra scrittore e popolo, lingua scritta e parlata, macaronea d'autore ed espressività popolare", cfr. Patrizi, 2014: 236-237.

A COSA E' FINALIZZATO IL VERISMO DI GADDA?

Questa domanda rimarrà, credo ancora per lungo tempo, senza una risposta, a meno che qualche prezioso testo autografo, in cui lo stesso autore chiarisca motivazioni e intenti programmatici in proposito, non spunti fuori improvvisamente. Gadda non ha l'aria di uno scrittore impegnato, uno di quelli convinti dell'importanza cruciale del proprio attivismo letterario all'interno della società, ma è sicuramente un arguto analizzatore della sua contemporaneità e, come tutti gli scrittori attivi nel secondo dopoguerra, può godere finalmente di una rinnovata liberta di pensiero, ha la possibilità di comporre e pubblicare un romanzo che nasconde tra le righe rospi da sputare, non da mandare giù (il crimine su cui indaga il commissario Ingravallo rimane de facto senza un responsabile: velata allusione all'ipocrita apparenza di efficienza e perfezione del regime, dietro la quale si nascondono mediocrità e pressapochismo). Esattamente come il corifeo della scuola versta, Giovanni Verga, la cui strada venne battura da pochi imitatori, anche Gadda (e Pasolini) è convinto che lo scrittore non possa far altro che offrire al suo pubblico una rappresentazione obietiva di una realtà sociale perfetibile, nient'altro. Che senso ha, dunque, ricorrere a tecniche narrative veriste in un romanzo, che, tra l'altro, dovrebbe essere ascrivibile a al giallo, o al poliziesco (il protagonista è impegnato nella risoluzione di un delitto)? La risposta che mi sembra più plausibile è che l'oggettività, l'eclissi dell'autore, lo straniamento, la regressione del narratore e la narrazione corale siano gli unici espedienti per orientarsi all'interno di quel gomitolo aggrovigliato, non solo metafora, ma essenza della modernità. 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

edizione dei romanzi citati nel saggio:

- PASOLINI P.P. (1955), Ragazzi di vita, Milano, Garzanti;

- GADDA C.E. (1957), Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, edizione a cura di G. Pinotti, 2022, Milano, Adelphi;

***

BALDI G. (2018), La “baroccaggine del mondo”. Sui romanzi di Gadda, Napoli, Liguori editore;

COLETTI V. (1993), Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi;

CONTINI G. (1989), Quarant’anni di amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda, Torino, Einaudi;

FORMENTIN V. (1987), La prosa concertata. Studio di una maniera gaddiana, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, s. III, XVII, I, pp. 225-248;

MENGALDO P.V. (1994), Storia dell’italiano del Novecento, Bologna, Il Mulino;

IDEM, (2008), Attraverso la prosa italiana. Analisi di testi esemplari, Roma, Carocci;

PATRIZI G. (2014), Gadda, Roma, Salerno editrice, 234-254;

PECORARO A. (1998), Gadda, Bari, Laterza;

PONZI M. (1975), Alcuni punti su ironia e straniamento nel “Pasticciaccio”, in AA.VV., L’alternativa letteraria del ‘900: Gadda, Roma, Savelli;

IDEM (1987), La tecnica della digressione nella struttura del testo gaddiano, in F. Muzzioli et alii, Gadda. Progettualità e scrittura, Roma, Editori riuniti;

RINALDI R. (2010), Gadda, Bologna, Il Mulino, pp. 113-127;

SEGRE C. (1996), La letteratura italiana del Novecento, Bari, Laterza;

SERONI A. (1969), Gadda, Firenze, La Nuova Italia;

TRICOMI A. (2020), Pasolini, Roma, Salerno editrice; pp. 79-85;

VELA C., a cura di (1993), «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, Milano, Adelphi.


Commenti

Post più popolari