QUANTE COSE AL MONDO PUOI "FARE"?




Un aspetto dell’oralità, della grammatica del parlato, che solitamente non viene riconosciuto come tale (e a cui, anche nella descrizione dei tratti linguistici caratterizzanti l’italiano digitato, non viene dedicata la dovuta attenzione) è sicuramente l’abuso delle voci del verbo fare. 


Si tratta, infatti, un verbo jolly, che, esattamente come il verbo dire, dispensa la sua altissima disponibilità nei confronti dei membri della comunità dei parlanti nell’ambito delle conversazioni quotidiane più informali (orali o digitali che siano). Addirittura, in alcuni romanzi scritti da celebri autori, attivi nel secondo dopoguerra, il verbo fare, per esigenze di mimesi linguistica con l’idioletto caratteristico dei personaggi rappresentati, prende il posto del verbo dire, impiegato nel discorso indiretto legato: 

 

-  Bravo, - fa a Pin, - sei venuto su da te, sei in gamba.

Mondoboia, Lupo Rosso, fa Pin, - come mai sei qui? Io t’ho aspettato tanto. (Cfr. Italo Calvino (1964)2, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, ed. 2002, Oscar Mondadori, p. 65)


Il Riccetto sbadigliò, e poi guardò il caciotta con gli occhi assonnati. «Namo, a Caciò?» fece. L’altro scolò il bicchiere di vino tutto d’un fiato, fini d’ubbriacarsi, e uscendo frettoloso dall’osteria, gridò alzando una mano: «Ve saluto, a cosi brutti». (Cfr. Pierpaolo Pasolini (1955), Ragazzi di vita, Milano, ed. 2009, Garzanti, p. 73)

 

 

Il valore semantico di fare è generico: così generico che una volta il suo impiego, nei testi prodotti a scuola da apprendenti delle scuole elementari, veniva quasi sempre segnalato come un’imperfezione formale da docenti di lingua italiana (elencando i tratti caratterizzanti l’italiano delle scritture, contenute in quaderni compilati da apprendenti di scuola elementare della metà degli anni Trenta, Michele Cortelazzo specifica al punto 8: «avversione per i nomi generali (penso a nomi come persona, gente, faccenda, posto, ma anche per estensione anche a verbi come fare)», cfr. Cortelazzo, 2000: 84). In senso assoluto non indica nessuna particolare azione del soggetto agente e il suo significato deve essere sempre completato da un aggettivo esornativo o da un avverbio. 

 

DOMINIO DEL VERBO FARE NELL’ITALIANO CONTEMPORANEO

 

Per delimitare i confini del dominio di questa determinata forma verbale, abbiamo seguito quasi pedissequamente la finestra di approfondimento di Fabio Rossi, docente associato di linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Messina, pubblicata sulla relativa pagina web del dizionario enciclopedico Treccani (2003).

 

Abbiamo dunque appreso che, oltre alla specifica funzione di predicato verbale, fare viene impiegato:

  • come sostantivo, con il significato di modo di comportarsi, modo di agire, maniera, nella locuzione nominale sul fare di, con il significato di a somiglianza di;
  • di nuovo come sostantivo con il significato di principio, in alcune locuzioni come sul far del giorno, sul far della sera;
  • in alcune espressioni, in cui conserva però lo status verbale, come ad esempio avere un bel da fare.

Le voci di questa forma verbale vengono impiegate anche in costrutti polirematici, portatori di un preciso valore semantico (saperci fare = essere bravo; farci caso = prestare attenzione, badare a; fai tu = decidi tu; niente a che fare = non avere nulla da condividere; fare a meno di = rinunciare a; darsi da fare = lavorare con zelo; farcela = riuscirci; farla grossa = combinare una grande pasticcio).

 

Il verbo fare è anche la base per un indeterminato gruppo di composti verbali (assuefare, liquefare, rarefare, rifare, stupefare, tumefare ecc) che seguono in tutto e per tutto la coniugazione della testa (l’unico accorgimento da adottare nello scritto è l’inserimento dell’accento grafico sull’ultima sillaba della terza persona singolare del presente indicativo. Solo i verbi disfare e soddisfare presentano alcune forme diverse, ad es. soddisfo e non soddisfaccio). 

 

Fare è tra i verbi più generici e frequenti della lingua italiana, con valore sia transitivo, sia intransitivo pronominale, usato con significato pieno, ora come sostituto di verbi più specifici, ora come cosiddetto “verbo supporto” e in moltissime espressioni più o meno cristallizzate.

 

Il significato principale di fare è compiere un’azione materiale. Proprio per questo suo valore semantico, può talora essere sostituito da compiere, eseguire, svolgere. 

Un altro possibile sinonimo di fare è effettuare, che tuttavia ha spesso un sapore artefatto e burocratico, degno di quella che Italo Calvino chiamava l’«antilingua», vale a dire quel registro linguistico, tipico della pubblica amministrazione, nel quale «i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […]. Perciò dove trionfa l’antilingua - l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa» (Cfr. Italo Calvino, L’antilingua, in Idem, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995, p. 154 – prima pubblicazione su «Il Giorno», 3, febbraio 1965).
Se fare ha come complemento diretto un edificio o un monumento, potrebbe essere sostituito con costruire e fabbricare. Ha il medesimo significato di confezionare, o cucire, se ciò che si realizza è un vestito. Quando l’azione individuata da fare ha come scopo la produzione di alimenti, allora può essere alternato a cucinare, o preparare. Con un complemento come testi, fare vuol dire comporre, scrivere, redigere.

Insomma, il dominio di questo verbo è garantito dalla sua multifunzionalità e dalle numerose possibilità di impiego in vari contesti.

 

Fare può, inoltre, essere il sostituto di altri verbi già usati in precedenza o difettivi: ad es. Oggi il sole splende come non ha mai fatto.


IL VERBO FARE COME PROTAGONISTA DELL’AZIONE CAUSATIVA

 

La reiterata presenza delle forme del verbo fare, nei discorsi e nei testi più informali, è implementata dal loro impiego all’interno dei costrutti causativi (o perifrasi causative, locuzione causative, chiamatele come volete).

 

Raffaele Simone, al cui testo rimando le nozioni che sto per sciorinare (Simone, 2010), ci informa che il costrutto causativo, perifrasi tipica della nostra lingua, è una costruzione composta da due frasi accostate senza connettivi: nella prima il predicato è una voce del verbo fare al modo finito; nella seconda il predicato è l’infinito di un qualsivoglia verbo. 


Il costrutto causativo presenta alcune proprietà pragmatiche: 

  • indica l’intervento di due agenti: il primo impartisce un ordine o avanza una richiesta, il secondo esegue gli ordini e realizza lo scopo; 
  • tra i due agenti si stabilisce, pertanto, una relazione iniziatore-esecutore;
  • tra i due agenti c’è un rapporto gerarchico, per cui la prima azione crea i presupposti per lo svolgimento della seconda azione;
  • l’esecutore non è il diretto responsabile dell’azione fattiva che si realizza alla fine (il confezionamento di un vestito, la preparazione di una torta, etc.);
  • emerge la capacità dell’iniziatore di ordinare l’esecuzione di qualcosa;

Quando l’esecutore viene espresso, esso è l’oggetto diretto del verbo all’infinito.
Quando vengono invece espressi sia l’esecutore che il prodotto della sua attività, l’effetto che viene commissionato dall’iniziatore, il primo si presenta sotto forma di sintagma preposizionale introdotto dalla preposizione semplice a (il cosiddetto complemento di termine, in latino espresso con il dativo):


Il direttore ha fatto cantare una canzone ai bambini


In caso di forma passiva, qualora oggetto ed esecutore siano entrambi espressi, l’oggetto diventa il soggetto della frase:


Il direttore ha fatto cantare una canzoneUna canzone è stata fatta cantare dal direttore


Se viene specificato solo l’esecutore, allora a lui spetta il ruolo del soggetto nella frase al passivo:


Il direttore ha fatto cantare i bambiniI bambini sono stati fatti cantare dal direttore


Ma non tutti i costrutti causativi sono uguali. Innanzitutto, esistono due opposti gradi di causatività o fattitività:


  • il grado forte, quando l’iniziatore impartisce un vero e proprio ordine, e viene impiegato sempre e comunque il verbo fare come predicato dell’iniziatore.
  • il grado debole, in cui lasciare è il predicato dell’iniziatore, che indica una concessione da parte dell’iniziatore più che un vero e proprio obbligo.

Inoltre si annoverano almeno tre tipologie di perifrasi causativa:


1.   causative che non hanno nulla di causativo (ho fatto prendere aria al tappeto, ho fatto mangiare il bambino); si tratta di causative semanticamente false, che non evidenziano alcun controllo da parte dell’iniziatore sull’esecutore; dall’esistenza di queste causative si ipotizza che l’italiano utilizzi il verbo fare come materiale per la realizzazione di verbi polirematici (far avere notizie; far credere, lasciare intendere; far sapere, far vedere, farsi vedere. Cfr. Simone, 2010: «Queste combinazioni, pur avendo aspetto di causativa, non hanno nulla di causativo dal punto di vista semantico. In effetti fare avere, fare sapere, ecc. si comportano come predicati unici»);

2.   causative di significato ambiguo, in cui la relazione iniziatore-esecutore può essere interpretata come un imperativo (ho fatto studiare mio figlio, il dottore ha fatto alzare l’ammalato, ho fatto lavare la lattuga; non è chiaro, per quanto riguarda la prima frase se l’iniziatore ha obbligato il figlio a studiare o se lo ha semplicemente agevolato nel compito).

3.   causative vere e proprie, quelle in cui la costruzione codifica un alto grado di forza causativa (l’imperatore fece costruire una flotta ai marinai).


In tutte queste tipologie di causative, a prescindere dal grado di causatività o fattività, i clitici hanno un comportamento molto particolare, nel senso che si legano al verbo fare, il primo verbo (Il direttore oggi è di buon umore, non farlo innervosire).

In italiano si potrebbe ravvisare anche un quarto tipo (probabile influsso dal francese) di uso limitato al parlato: nelle situazioni in questo modo descritte emerge un iniziatore che in realtà è un paziente (si è fatto fregare, si è fatto rubare il portafogli da un borseggiatore). Il costituente che identifica l’esecutore è espresso con il sintagma preposizionale da + nome.


UN PO’ DI STORIA DEL COSTRUTTO CAUSATIVO


In latino le soluzione sintattiche più frequente: 

1.   iubere + ut + congiuntivo;

2.   facere, efficere +ut + congiuntivo.


Non potuisti ullo modo facere ut mihi illam epistulam non mitteres (Cicerone, Ep. Ad Att., XI, 21, 1)


La soluzione facere + infinito (antenata della costruzione italiana) si trova nella fase aurea della lingua, ma meno spesso delle altre. La costruzione con facere è diffusa in particolare nel genere testuale delle ricette di cucina. 

Soltanto nel medioevo il latino mostra segni frequenti di una struttura causativa nel senso descritto:


Mulierem clamare fecit (Gregorio di Tours, Historia Francorum, 11)


L’odierna costruzione causativa sembra essere, se non un’innovazione romanza, perlomeno un frutto della tarda latinità. In italiano è attestata dalle prime fasi, anche se con un ordine dei costituenti diverso da quello attuale (Brambilla Ageno, 1956; Robustelli, 1992; Robustelli, 1994); Si veda, tra tutti, il seguente esempio di Dante:


La grave idropesi (…) faceva lui tener le labbra aperte (Inf. XXX, 52-55).


Conclusione - Lungi da me demonizzare questo verbo, che, in alcuni specifici casi si rivela estremamente utile e di immediata disponibilità. L'invito a tutti i lettori del blog (siano o meno apprendenti) è di ampliare costantemente il proprio repertorio lessicale e sfruttare al meglio tutte le possibilità espressive che la nostra bella lingua ci offre.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • CORTELAZZO M. (2000), Per la storia dell’italiano scolastico, in Idem, Italiano d’oggi, Padova, Esedra editrice, pp. 91-109; 
  • BRAMBILLA AGENO F. (1956), Il verbo in italiano antico, Milano, Ricciardi.
  • SIMONE R. (2010), Causativa, costruzione, in «Enciclopedia dell’Italiano», Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, s.v.;
  • ROBUSTELLI C. (1992), Alcune osservazioni sulla sintassi del costrutto fare + infinito nell’italiano dei primi secoli, in «The Italianist», 12, pp. 83-116;
  • Eadem (1994), Il costrutto latino ‘fare’ e infinito nell’italiano dal 1400 al 1800, in «Studi e saggi linguistici» 4, pp. 151-203;
  • Fabio Rossi (2003) - Finestra di approfondimento, Sinonimi e Contrari.


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