NON SI DICE "GRAZIE", SI DICE "VAFFANCULO"!!!



Non ho alcuna esperienza di comportamenti linguistici condivisi dai membri di comunità di parlanti dislocate all'estero, ma posso pontificare, anche con toni abbastanza infastiditi e polemici, contro una tendenza che i miei connazionali perpetrano da quando ero bambino: la paura, il terrore nel pronunciare in pubblico determinate parole. E non sto parlando di bestemmie, di imprecazioni, di espressioni verbali che producono troppo esplicitamente campi semantici relativi alle idee di "sporco" e/o di "pornografico". In questo preciso momento, infatti, ho in mente alcune parole che, pur essendo perfettamente utili per la descrizione di un designatum, per un imprecisato motivo vengono preferibilmente evitate, quindi alterate o sostituite con sinonimi o perifrasi.




Gli italiani sono dei veri esperti in fatto di eufemismi e giochi di parole. Uno sport linguistico che, mi dispiace ammetterlo, rivela una velata e carsica ipocrisia che caratterizza la nostra cultura neo-borghese. 

Nel bel Paese abbiamo paura delle parole, o almeno di "alcune parole". Se le usassimo con disinvoltura, probabilmente procureremmo uno o più incidenti diplomatici, offenderemmo un'amica, una parente, una collega, chiunque. E saremmo visti come degli zotici, dei bifolchi, brutte persone che non innescano le cellule celebrali prima di aprire bocca.

Questo comportamento (che si intensifica progressivamente salendo la "piramide sociale", fino ad apparire quasi insopportabile all'interno delle etichette e dei protocolli nell'ambito dei contesti più formali e strutturati) è noto agli studiosi di fatti di lingua come tabù linguistico o interdizione linguistica. Si tratta di una tendenza che non coinvolge neologismi, ovvero parole nuove a cui i parlanti non sono ancora avvezzi. Piuttosto, l'anatema viene spontaneamente scagliato contro parole presenti da tempo immemore nei magazzini lessicali della nostra lingua e relative ad alcune specifiche aree di significato:

1) la sfera del sacro, 

2) la sessualità,

3) gli organi genitali, sia maschili che femminili,

4) la malattia, la disabilità, i difetti e le particolarità fisiche.

5) l'identità di genere,

6) le qualità negative, i difetti, i vizi.

7) la morte

L'interdizione non comporta necessariamente il silenzio e l'omertà. Un nome o una forma verbale possono subire un'alterazione (ad esempio, i fiorentini esclamavano Maremma maiala, per evitare di invocare ivano, e insozzare, il soprannome della Vergine Maria, Madonna), oppure una sostituzione con un sinonimo formalmente più accettabile (ipovedente per cieco), una perifrasi (quei giorni per mestruazioni) o un eufemismo (simpaticone/a per indicare una persona dal carattere spigoloso).

Analizziamo meglio la casistica più ricorrente.

Per evitare di violare il secondo dei dieci comandamenti, in tutta Italia sono stati escogitati degli espedienti per evitare di accostare il nome di Dio, dei membri trinitari, della Madonna e di tutti i santi al nome di qualche specie animale oppure a palese turpiloquio (come se gli italiani non sapessero bestemmiare come carrettieri, quando sono accecati dall'ira): mannaggia la marina, òstrega, porcozzio, porcoddinci. Per non parlare, poi, dei nomi più improbabili di santi, mai sottoposti ad alcun processo di canonizzazione: mannaggia Santa Pupa, San Gioppino (il mio nonno materno malediva San Bisterno 😂😂😂). 

Fin qui, tutto a posto.

Ora, mi chiedo e vi chiedo: perché a scuola non posso ricorrere alla politematica fare sesso di fronte ad una platea di minorenni, quando invece alcune serie televisive, a cui i giovani e le giovani di oggi hanno liberamente accesso, sono così esplicite, anche linguisticamente, che per un qualunque adolescente il sesso e la sessualità sono aspetti del vivere quotidiano ormai totalmente sdoganati? Perché devo per forza obbligarmi a dire avere rapporti sessuali e non posso utilizzare il verbo copulare? Non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di usare verbi come scopare, fottere, trombare. Perché, però, la suddetta censura viene imposta magari da genitori che davanti ai loro figli trasformano la loro bocca in una cloaca? 

Il sesso, purtroppo e non per fortuna, è un'area semantica in cui un singolo referente esterno è indicato da un cumulo di forme nominali, tutte diverse l'una dall'altra nel significante. Si pensi alle forme nominali indicanti i genitali maschili e femminili: cazzo, pisello, uccello, mazza, cetriolo, banana, fregna, ficatopagnocca, patata, patafiocca, Walter e Iolanda (Luciana Littizzetto dixit). Sono parole effettivamente inopportune in determinati contesti diafasici, ma non comprendo perché pene e vagina siano parole da usare con estrema attenzione, soprattutto quando si parla di educazione alla sessualità.

E ancora: perché non posso dichiarare che la causa del decesso di Giovanni Pascoli fu un tumore allo stomaco, ma devo invece ricorrere alla parola cancro o alla ridicola formula male cattivo (o brutto male, che fa tanto subcultura ancestrale)? No, non sto scherzando. Una volta fui richiamato in presidenza perché, ricorrendo alla parola tumore, avevo accidentalmente devastato la sensibilità di una soave fanciulla, frequentante le mie lezioni. 

Perché ci sentiamo liberi di usare la parola grasso soltanto quando ci riferiamo ad una materia inerte, ma non sfoderiamo la medesima disinvoltura per indicare qualcuno o qualcuna che si presenta fisicamente rubicondo? 



L'aggettivo negro è molto più aderente di qualsiasi altro sinonimo alla sua rispettiva base etimologica. Da quando viene percepito come un'offesa? L'espressione verbale di colore, in fondo, appesantisce il discorso e odora di razzismo represso lontano un chilometro.

La disabilità è ormai diventata il festival del perbenismo piccolo-borghese. Concordo che portatore di handicap sia semanticamente scorretto, in quanto la parola handicap si riferisce, per la precisione, alla risposta che l'ambiente circostante riserva alla disabilità di un individuo (se sono tetraplegico, il mio handicap sono le scale), ma perché usare parole come speciale, con bisogni educativi speciali? Quindi, se un adolescente nasce sano e libero, non ha in dotazione il medesimo grado di specialità. Propongo di cessare di scrivere ipoacusico neurosensoriale bilaterale profondo sui certificati rilasciati da enti sanitari. Che c'è di male nel definire sordo un uomo o una donna, il cui udito è compromesso?

Il linguaggio diventa un campo minato quando si discute di identità di genere, di riassegnazione del sesso assegnato alla nascita, di professioni lavorative una volta professate esclusivamente da uomini e ora appannaggio anche delle donne, di identità non binaria. Insomma, utilizzare una parola, una desinenza piuttosto che un'altra, un articolo sbagliato, in alcune circostanze può essere vissuto dal ricevente come una sorta di aggressione verbale. Quest'ultimo argomento, però, trascende il topic del presente post e meriterebbe una discussione predisposta da una persona diversa dal sottoscritto, che ancora si orienta con difficoltà all'interno di tali dibattiti.

In conclusione, per me il miglior esempio di interdizione linguistica nazionale è quando un giornalista televisivo, annunciando la morte di un personaggio pubblico, asserisce che è scomparso (e dove è andato? Chi l'ha rapito?).

Non vorrei sembrare superficiale, anche se forse alcune argomentazioni sovraesposte effettivamente lo sono. Ogni tanto, però, un pensiero a me recondito emerge in superficie: non sarà forse colpa di un certo "wokismo" culturale, di tanta eccessiva prudenza nell'utilizzo del linguaggio verbale umano, se oggi alcune parole assumono un significato diverso da quello originario, per cui patriarcato è sinonimo di maschilismo, ironia vuol dire sarcasmo ed empatia significa altruismo?



Evviva la fresca spontaneità di Papa Francesco!


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

APPIANI M. (2006), Il pudore nel linguaggio. Il tabù linguistico: un'interpretazione psicoanalitica, Torino, Hoepli;

BEATRICE C. (2022), Parla bene pensa bene. Piccolo dizionario delle identità, Milano, Bompiani;

GALLI DE' PARATESI N. (1969), Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo. Milano, Mondadori;

GHENO V. (2021), Le ragioni del dubbio. L'arte di usare le parole, Torino, Einaudi;

EADEM (2023), Galateo della comunicazione, Firenze, Franco Cesati editore;

SABATINI A./MAESTRI G. (2020), Il sessismo nella lingua italiana, Firenze, Blonk; 

TAMBORINI B./PELLAI A. (2020), Tabù. Come parlare ai bambini dei tempi più difficili attraverso l'educazione emotiva, Milano, Mondadori.



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