UN "BUGIARDINO" PER IL DECAMERON. Ciò che occorre sapere prima di leggere la prosa narrativa di Boccaccio
Il quoziente di originalità del Decameron di Giovanni Boccaccio è davvero considerevole. Persino le opere in cui Dante Alighieri ricorre alla scrittura in prosa inframmezzata a poesia (Vita nuova e Convivio) non costituirono per il certaldese un modello linguistico di riferimento. Allo stesso modo, anche un’opera come il Novellino, raccolta di novelle toscane risalente all’ultimo ventennio del XIII secolo il cui autore è ignoto, non esibisce quelle caratteristiche che rendono riconoscibile la scrittura del Decameron.
SULLA FORTUNA DEL DECAMERON
La fortuna della monumentale raccolta di ben cento novelle (organizzate in gruppi da dieci, a loro volta distribuiti lungo una decade di giornate) raggiunse il suo apice nel primo quarto del XVI secolo, e più precisamente grazie alla menzione d’onore del cardinale veneziano Pietro Bembo (Venezia, 1470 - Roma, 1547), come modello di ottima prosa per i nuovi scrittori. Le argomentazioni, che il Bembo mise nero su bianco per motivare questo lusinghiero giudizio di gusto nei confronti dell’opera di Giovanni Boccaccio, sono contenute nel terzo libro della grammatica in forma di dialogo platonico, Prose della volgar lingua (1525).
Sappiamo, però, che alcune vicende narrate nel Decameron sottintendono contenuti che oggi non scandalizzerebbero più nessuno, ma che anticamente, soprattutto nel tardo medioevo, avrebbero procurato diverse gradazioni di rossore non soltanto sulle guance delle novizie.
Per questo, nella seconda metà del Cinquecento, in piena era della Controriforma, l’opera venne censurata, riscritta, inserita nel famigerato Indice dei libri proibiti. Nel 1573 ne venne pubblicata una versione ripulita, e circa dieci anni dopo, nel 1582, Lionardo Salviati, il padre fondatore dell’Accademia della Crusca, confezionò un’ulteriore edizione del Decameron, frutto di un rimaneggiamento linguistico.
Quando finalmente la prosa del Boccaccio venne restaurata nella sua primigenia facies, tornò ad influenzare per moltissimo tempo tutti coloro che in Italia si cimentarono con la produzione di opere letterarie in prosa.
Nel XIX secolo, i manzoniani sostennero i diritti della lingua viva (Alessandro Manzoni preferì soggiornare, seppur per poco più di un mese, a Firenze per poter apprendere la lingua utilizzata dalle classi colte) e, a parere di Claudio Marazzini, gli uomini di lettere criticarono la reiterazione, nelle scritture a loro contemporanee, di alcuni stilemi sintattici tipici della prosa boccaccia.
BENE, ORA LEGGI ATTENTAMENTE LE AVVERTENZE…
Ma quali sono dunque questi “stilemi”, così antipatici ai romantici corifei dell’unificazione linguistica del Bel Paese?
Le narrazioni del Decameron descrivono un universo caleidoscopio in cui si confondono situazioni e contesti diversi l’uno dall’alto. Per esigenze di realismo, Giovanni Boccaccio ha cercato di riprodurre con un notevole virtuosismo la variabilità che caratterizza intrinsecamente qualsiasi idioma. Per questo, dialoghi e monologhi sono spesso marcati in distratìa e in diatopìa. Mi spiego meglio: inserti dialettali ci permettono di indovinare la provenienza geografica del personaggio di cui abbiamo assaporato le parole; l’uso di determinate espressioni (battute di spirito, imprecazioni e modi di dire) la dicono lunga, invece, della collocazione di alcuni protagonisti delle novelle all’interno della piramide sociale.
Si veda, allora, il veneziano di Chichibio (“Voi non l’avrò da mi, donna Brunetta, voi non l’avrò da mi”) o di Monna Lisetta, la protagonista della seconda novella della quarta giornata, per non parlare poi del gioco linguistico entra nella burla di frate Cipolla (Decameron, VI-10: Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Cuffia, paesi molto abitati e con gran popoli, e quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andava per l’amor di Dio schifando, poco dell’altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, null’altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: […]).
Per quanto riguarda l’aspetto della variabilità sociolinguistica del Decameron, particolarmente utile è il contributo di Alfredo Stussi con il quale ripulì il testo del Decamerone dalle correzioni alle forme idiomatiche e regionali, che nella seconda metà del XVI secolo erano state indebitamente apportate al testo di alcune novelle (STUSSI 1993).
Il compianto Luca Serianni sosteneva che fosse eccessivo parlare di un plurilinguismo programmatico, ma che la prevalenza dello stile nobile e sintatticamente latineggiante fosse una costante ricerca di regolarità, nonostante, nel corso delle polemiche del Seicento attorno ai modelli propositi dal Vocabolario della Crusca, alcuni avessero giudicato questo stile manierato e innaturale.
I dialoghi presentano moduli del parlato, vivaci scambi di battute, anacoluti, repliche del pronome:
- Il Saladino, il valore del quale fu tanto […] gli venne in memoria un ricco giudeo (I, 3)
- che mi potrestù far tu? (IX-6)
Ma l’autentico marchio di fabbrica del Giovanni Boccaccio del Decameron è sicuramente la “complessa ipotassi” (che in certi casi definire complessa è un eufemismo) con tanto di sostituzione delle canoniche posizioni di precisato e complemento diretto. Un esempio tra tanti, che avrebbe messo in crisi anche Cicerone in persona, se questi avesse eventualmente deciso di individuare la proposizione principale (II, 8):
E avanti che a ciò procedessero per non lasciare il regno senza governo, sentendo Gualtieri conte d’Anguersa gentile e savio uomo molto loro fedele amico e servitore, e ancora che assai ammaestrato fosse nell’arte della guerra, per ciò che loro più alle delicatezza atto che a quelle fatiche parla, lui in luogo di loro sopra tutto il governo del reame di Francia General vicario lasciarono, e andarono a loro cammino.
Prima di scorgere l’ombra di una subordinata nel suddetto contesto, il lettore è costretto a sorbirsi ben cinque subordinate.
Il primo consiglio che mi sento di dispensare agli studenti che stanno leggendo questa piccola guida è quello di sottolineare la frase che regge tutta la complessa impalcatura sintattica.
Le subordinate possono essere riconosciute dai connettivi e dai segnali discorsivi incipienti:
- E avanti che - “prima che”;
- E ancora che - coordina una causale esplicita con un’altra subordinata implicita al congiuntivo;
- Per ciò che - “per la quale cosa”, “per cui” (insomma, la testa di una relativa propria).
- mentre, quando, dunque, allora, appresso, come che, avvenne che, mentre,.
Il Boccaccio inoltre:
- ricorre alle forme apocopate tutte le volte che ce n’è la possibilità;
- abbonda con il gerundio;
- Utilizza sovente un pronome relativo come rinvio anaforico per iniziare il periodo (al che, a cui, al quale);
- ricorre ad alcuni espedienti per conferire musicalità al testo, come il cursus, gli omoteleuti, i parallelismi sintattici, le simmetrie del periodo, le allitterazioni.
E cosa dire a proposito della lingua? Secondo Marazzini (2003), sulla base dell’analisi dell’Hamilton 90, manoscritto prodotto da Boccaccio in persona, l’idioma selezionato da Giovanni Boccaccio è congruente con il fiorentino coevo, che presenta ogni tanto elementi arcaizzanti, come la forma dittongata diece.
La grafia (qualora si consulti un’edizione diplomatica, fedele dunque alle scelte grafiche dell’autore) presenta scritture latineggianti, come il nesso consonantico ct (decto), l’h etimologica (herba, honore, honesto).
Viene inoltre utilizzato il grafema ç per per riprodurre una z scritta scempia anche quando è foneticamente intensa (scioccheça).
Ora abbiamo tutte le informazioni preliminari per accedere alla lettura delle novelle del Decameron. Siamo pronti. Per il prossimo 2025 propongo una challenge: leggendo almeno due novelle per ogni settimana dell’anno, sarà possibile completare la lettura dell’intera raccolta.
Che ne dite, ci state?
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ANTONELLI G. (2018), Il museo della lingua italiana, Milano, Mondadori;
MARAZZINI C. (2003), La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino;
SERIANNI L. (1993), La prosa, in SERIANNI L. et alii (1993), Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi;
STUSSI A. (1993), Lingua, dialetto e letteratura, Torino, Einaudi.
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