LA "CELESTE CORRISPONDENZA DI AMOROSI SENSI" - Riflessioni a margine del "Dei Sepolcri" di Ugo Foscolo (1807).
Il carme, composto da 285 endecasillabi sciolti (ovvero, senza alcun schema ritmico), è una lunga e lussureggiante epistola in versi, indirizzata ad Ippolito Pindemonte (letterato veronese, poeta egli stesso, traduttore dell’Odissea di Omero).
La genesi del carme
Quest’ultimo aveva compiuto nel 1776 un viaggio in Grecia a cui si allude nel carme foscoliano. Di ritorno, sostando brevemente in Sicilia, ebbe modo di visitare le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, dove vengono ancora oggi conservate delle mummie. Tale esperienza colpì profondamente la sensibilità del grecista veronese, in modo da indurlo a comporvi un carme e a rievocarla in una composizione di ispirazione sepolcrale, in risposta alla più nota opera del Foscolo.
Il carme Dei Sepolcri venne composto in pochi mesi, tra l’estate e l’autunno del 1806. Venne pubblicato l’anno successivo a Brescia, mentre il poeta era ospite di una sua cara amica (probabilmente l’ennesima amante). Il Foscolo, pur convinto classicista, fu sempre particolarmente attento alle novità letterarie a lui contemporanee; certamente conosceva le liriche dei poeti preromantici inglesi che avevano sviluppato il motivo della contemplazione del sepolcro e della relativa riflessione sul senso della vita e della morte. Due anni prima della composizione del Dei Sepolcri, però, la nobiltà del Regno d’Italia (intendendo con questa dicitura lo stato satellite della Francia, nato a seguito delle campagne militari dell’imperatore Napoleone Bonaparte in Italia) era stata raggiunta dagli effetti del famigerato Editto di Saint Cloud (1804), una norma sulla gestione degli impianti cimiteriali e delle sepolture.
Gli aristocratici per molti secoli erano stati abituati alla possibilità di erigere sontuosi monumenti commemorativi dei loro illustri antenati (delle vere e proprie sepolture, non banali cenotafi), spesso commissionando ad artisti e architetti l’allestimento di cappelle gentilizie all’interno dei più importanti luoghi di culto cittadini. La nuova legge napoleonica, invece, introduceva due nuovi criteri vincolanti: le sepolture dovevano avere tutte il medesimo aspetto, in quanto non esistono cittadini più di altri meritevoli di sontuose pompe funebri; i cimiteri, per motivi puramente igienico-sanitari, dovevano sorgere al di fuori della cinta muraria delle città.
L’Editto fu quindi foriero di polemiche, malcontenti, accesi dibattiti che spesso animavano le discussioni dei salotti letterari. Chi era Napoleone per obbligare i nobili alla scelta di una morigerata commemorazione dei loro rispettivi defunti? Questo dubbio animò probabilmente la posizione in proposito di Ippolito Pindemonte (un veronese, abituato quindi alla visione quotidiana delle “arche scaligere”, ovvero tombe illustri disseminate lungo le principali arterie del centro cittadino). Pindemonte e Foscolo si confrontarono sull’argomento presso il salotto della contessa Isabella Teotochi Albizzi (l’ennesima amante del Foscolo!) ed il primo letterato rimase sconvolto dal freddo materialismo del secondo: Foscolo per tutta la sua vita fu un ateo convinto, per cui al mondo non esisteva altro che una materia sottoposta spontaneamente a un perpetuo ciclo di vita-morte-rigenerazione.
Ovviamente una testa come quella del nostro Ugone nazionale non può chiudere una questione del genere con troppa facilità. Foscolo continuò pertanto a meditare a lungo, non tanto sul senso della morte, quanto su quello della tomba in sé. Se per il caro estinto essa è indifferente, perché l’umana progenie, nei secoli successivi alla creazione, ha perpetuato tradizioni sepolcrali complesse, ormai millenarie? L’intero consorzio umano è rappresentato soltanto da donne e uomini ignoranti e superstiziosi?
Struttura, temi e stile
Come ha specificato lo stesso Foscolo in un’epistola inviata ad un critico francese (monsieur Guillon), il carme non può essere affatto inserito all’interno dell’allora giovanissima tradizione della poesia sepolcrale, ma è un saggio di poesia impegnata, in grado di scuotere le coscienze dei borghesi più qualunquisti e benpensanti.
Il carme si presenta come una sontuosa epistola in versi indirizzata allo stesso Ippolito Pindemonte. I temi toccati dal poeta sono sapientemente legati da una rassegna di immagini che illustrano rituali funebri e percezioni collettive della morte dall’Antichità, passando per il Medioevo, fino al mondo contemporaneo: le spoglie di Giuseppe Parigi abbandonate in una squallida fossa comune, la cagna randagia che di notte attraversa famelica un cimitero popolato da teschi, upupe e altri volatili notturni; i simulacri dei Lari, le urne, le are, le libagioni, gli effluvi odorosi dei fiori che adornano le sepolture; le vergini britanniche in visita presso i sepolcri suburbani; le arche dei gradi in Santa Croce a Firenze; le falangi dell’esercito dei Greci in lotta contro i Persiani; gli eroi dell’epopea troiana.
Una sintesi dei contenuti e dei toni del carme può essere gradita soprattutto a chi non ne ha mai letto nemmeno un emistichio.
Il sonno della morte è forse meno profondo se la tomba viene ombreggiata da cipressi e se il sepolcro viene confortato dal pianto dei cari rimasti in vita? Quando per me il sole non feconderà più la terra, facendole generare questa bella famiglia di esseri vegetali ed animali, e quando le ore future non danzeranno dinanzi a me, attraenti per le promesse lusinghiere che essere recano con sé, e non udirò più da te, dolce amico, i tuoi versi regolati da un mesta armonia, e non parleranno più al mio cuore la poesia e l'amore, unico stimolo di vita spirituale alla mia vita di esule, come potrà compensarmi dei giorni che non vivrò una pietra tombale che distingue le mie ossa dalle infine altre che la morte dissemina per terra e per mare.
E' proprio vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea, abbandona le tombe, e la dimenticanza avvolge ogni cosa nelle sue tenebre, e la forza sempre all'opera della natura li trasforma con un continuo travaglio, e il tempo muta e rende irriconoscibili l'uomo, e le tombe, i resti mortali dell'uomo e i vari aspetti della terra e del cielo. Ma perché l'uomo, prima che sia il momento di morire, dovrà privarsi dell'illusione che lo trattiene al di qua della soglia della morte? Non continua a vivere anche sotto terra, quando la bellezza del mondo dei vivi non potrà più parlargli, se può suscitare l'illusione di essere ancora vivo nella mente dei suoi attraverso un'affettuosa partecipazione?
Nonostante ciò, oggi una nuova legge impone di seppellire i morti in cimiteri comuni fuori delle città e sottrae ad essi la possibilità di avere una lapide col loro nome. E (così) giace senza sepoltura il tuo sacerdote, o Talia, che cantando in tuo onore, coltivò con costante amore nella sua povera casa un alloro, e le appendeva corone in segno di devozione, e tu gli ispiravi l'ironia dei canti che colpivano il bugiardo Sardanapalo, a cui sta a cuore solo il muggito dei buoi che dalle stalle del lodigiano e dal Ticino lo rende beato, procurandogli ozio e cibi pregiati.
O bella Musa, dove sei? Tra questi tigli, dove io siedo sospirando la mia patria, non sento diffondersi nell'aria il profumo di ambrosia, indizio della presenza divina della Musa. E tu, o Musa, venivi e sorridevi a Parigi sotto quel tiglio che ora, come intristito, freme perché non copre il sepolcro del vecchio, a cui aveva già offerto generosamente tranquillità e ombra. Forse tu, Musa, vaghi tra le tombe plebee dei cimiteri suburbani, cercando la tomba del tuo Parini?
La grande città di Parigi che attira e compensa con fama e successo i cantanti evirati, non ha dedicato al grande poeta una tomba, dei cipressi che la ombreggiassero, un'epigrafe che lo ricordasse. E forse ora il capo mozzato del ladro che morì sul patibolo per i suoi delitti insanguina le sue ossa.
Tra le macerie di tombe in rovina e gli sterpi che crescono fra di esse senti raspare la cagna randagia che vaga tra le fosse e ulula famelica, e un'upupa uscire dal teschio, dove si era rifugiata per sfuggire alla luce lunare, e svolazzare tra le croci sparse per il campo del cimitero, e l'immondo uccello lanciare il suo lugubre verso con cui sembra rimproverare le stelle perché illuminano con il loro raggio pietoso le sepolture dimenticate. Inutilmente invochi, o Musa, dalla notte arida delle rugiade sulla tomba del poeta. Ahi! sui morti purtroppo non spuntano fiori, se l'estinto non riceve le cure dei vivi che lo onorano con le loro lodi e con le lacrime, segno del loro amore.
Da quando le istituzioni della famiglia, della giustizia e della religione consentirono agli uomini, che allo stato primitivo erano come belve feroci, di aver pietà e rispetto di sé stessi e dei propri simili, i vivi sottraevano all'azione distruttrice dell'aria e alle belve i miseri resti che la natura, con un ciclo di continua trasformazione della materia destina e assumere altre forme. Le tombe erano testimonianza delle glorie del passato e altari per i figli. Dalle tombe venivano i responsi dei Lari, divinità domestiche, e il giuramento pronunciato sulle ceneri degli antenati era considerato sacro: le virtù tradizionali, congiunte con la pietà, tramandarono per una lunga serie di anni questo culto religioso dei morti, in diverse forme.
Non sempre le lapidi facevano da pavimento alle chiese, né il puzzo dei cadaveri, mescolato al profumo dell'incenso, contaminò i fedeli che pregavano, né le città erano rattristate dalle raffigurazioni di scheletri: le madri balzano terrorizzate dal sonno, e protendono le braccia nude a proteggere il figlio lattante, affinché non lo destino i lunghi gemiti di un defunto che chiede agli eredi di far celebrare a pagamento delle messe in chiesa.
Ma cipressi e credi, impregnando l'aria primaverile (zefiri) di puri profumi protendevano sulle tombe i loro rami dal verde perenne, simbolo del perenne ricordo, e preziosi vasi raccoglievano le lacrime votive. Gli amici sottraevano una favilla al sole per illuminare l'oscurità delle tombe, perché l'uomo moderno cerca la luce, e tutti mandano un sospiro di rimpianto alla luce che li abbandona.
Le fontane versando acque purificatrici facevano crescere gli amaranti e le viole sulla terra di sepoltura, e chi sedeva presso il sepolcro a spargervi latte o a raccontare le sue pene ai cari defunti, sentiva intorno un profumo (di fiori, di unguenti), come se si trovasse nei Campi Elisi. Pietosa illusione rende cari alle fanciulle inglesi i giardini dei cimiteri suburbani, dove le spinge l'amore per la madre perduta, ma dove pregano anche i Greci affinché concedano clementi ritorno all'eroe nazionale, che fece tagliare l'albero maestro alla nave vinta, e se ne fece una bara.
Ma in quei paesi in cui è spento l'ardore di gesta eroiche e la vita civile è dominata solo dalla smania di arricchirsi e dalla paura servile dinanzi al potere, colonne funebri e tombe di marmo sono solo inutile sfoggio e malaugurate immagini di morte.I ceti dirigenti, onore e intelligenza del bel regno d'Italia, sono già sepolti, pur essendo ancora vivi, nelle regge dove costantemente si piegano ad adulare i dominatori, e come unico motivo d'onore hanno i titoli nobiliari, Per me invece la morte prepari un rifugio di pace, dove finalmente la sete cessi di perseguitarmi, e gli amici raccolgano come mia eredità non ricchezze ma appassionati sentimenti e l'esempio di una poesia che conservi il senso della libertà e della dignità umana.
Le tombe dei grandi uomini infiammano gli animi nobili a compiere grandi azioni, o Pindemonte, e rendono bella e sacra allo straniero la terra che le accoglie. Quando vidi la terra dove riposa Machiavelli, quel grande che, insegnando ai regnanti l'arte di governare, ne toglie gli allori, e rivela ai popoli come il potere si fondi sulle sofferenze imposte ai sudditi e sui delitti, ed il sepolcro di Michelangelo che innalzò a Roma la cupola di San Pietro, e la tomba di Galileo, che vide più pianeti ruotare nella volta celeste e il sole illuminarli immobile, aprendo così per primo le vie della ricerca astronomica all'inglese Newton, che vi fece straordinari progressi.
Felice te, gridai, per la tua aria salubre e vivificatrice, e per le acque pure dei fiumi e dei ruscelli che l'Appennino versa a te dai suoi gioghi! Lieta del tuo cielo terso, la luna riveste di luce splendente le tue colline in festa per la vendemmia, e le valli che attraversano, popolate di case e di uliveti, mandano al cielo mille profumi di fiori: e tu per prima, Firenze, udisti il poema che alleviò lo sdegno a Dante esule, e tu desti i genitori e la lingua a Petrarca, attraverso la cui bocca sembrava parlare la dolce voce della Musa Calliope, che dopo avere spiritualizzato Amore, che era sensuale nella lirica classica, lo restituì in tal modo alla dea Venere.
Ma ancora più beata sei perché conservi in un tempio le glorie italiane, forse le uniche rimaste da quando le Alpi mal difese e l’alternarsi della potenza tra le diverse nazioni ti hanno privato delle armi, della ricchezza, della religione e della nazione e, tranne che del ricordo del passato, di tutto.
Nel giorno in cui la speranza di gloria risplenderà agli animi generosi e all’Italia, trarremo gli auspici per le azioni future. E a queste tombe venne spesso ad ispirarsi Vittorio (Alfieri).
Adirato contro gli dei della patria, errava in silenzio nei luoghi più deserti introno all’Arno, desideroso guardando i campi e il cielo; e poiché nessun essere vivente gli addolciva l’affanno, si sedeva qui il severo; e aveva sul viso il pallore della morte e la speranza.
Abita con questi eternamente: le sue ossa fremono per l’amor di patria. Ah sì! Da quella pace sacra una voce divina parla: quello stesso che alimentò il valore e l’impeto guerriero di Greci che batterono i Persiani a Maratona dove Atene consacrò tombe ai suoi guerrieri.
Il navigante che solcava in quel mare sotto l’isola di Eubea, vedeva nella grande oscurità apparire scintille di elmi e spade che si urtavano, vedeva fumare i roghi di cadaveri, vedeva fantasmi di guerrieri luccicanti di armi di ferro cercare la battaglia; e nell’orrore dei notturni silenzi si diffondeva lungo nelle schiere di soldati un rumore e un suono di trombe, e un incalzare di cavalli che correvano scalpitando sugli elmi dei moribondi, e il pianto, gli inni e il canto delle Parche.
Fortunato te, Ippolito, che hai percorso il mare durante i tuoi anni giovanili! E se il timoniere indirizzò la nave oltre le isole dell’Egeo, certamente hai udito le rive dell’Ellesponto risuonare di antiche gesta, e la marea muggire portando nel promontorio Reteo le armi di Achille sopra le ossa di Aiace: per gli animi generosi la morte è giusta dispensatrice di gloria; né l’astuzia, né il favore dei re consentirono ad Ulisse di conservare le armi contese, poiché il mare agitato dagli dei degli inferni le tolse alla nave errante.
Quanto a me che i tempi presenti e il desiderio di gloria mi costringono ad andare fuggitivo tra diverse genti, possano le Muse animatrici del pensiero umano chiamarmi a evocare gli eroi.
Le Muse siedono sui Sepolcri per custodirli, e quando gli agenti atmosferici distruggono fino alle rovine, esse allietano i luoghi deserti con il loro canto, e l’armonia vince il silenzio di mille secoli.
E oggi nella Triade disabitata risplende eternamente ai visitatori stranieri un luogo reso eterno dalla Ninfa a cui fu sposo Giove, e a Giove diede il figlio Dardano da cui ebbero origini Troia e Assaraco e i cinquanta figli di Priamo e l’Impero Romano.
E ciò avvenne perché Elettra sentì la Parca che la chiamava dalla vita terrena alle danze festose dei Campi Elisi, mandò a Giove un ultimo desiderio: e se, diceva, ti furono cari i miei capelli e il mio viso e le dolci notti d’amore, e se la volontà del fato non mi concede sorte migliore, almeno dal cielo guarda la morte amica, affinché della tua Elettra resti immortale.
Pregando con queste parole moriva. E se ne addolorava Giove, re dell’Olimpo: e scotendo il capo immortale faceva piovere dai capelli ambrosia sulla Ninfa e fece sacro il suo corpo e la sua tomba. Lì fu sepolto Erittonio e riposa il corpo del giusto avo; lì le donne troiane scioglievano i capelli, invano ahi! Supplicando di tener lontano la morte incombente sui loro mariti; lì venne Cassandra, quando il Nume le fece predire la caduta di Troia; e cantò alle anime un inno affettuoso, e guidava i nipoti insegnando a loro il pietoso inno.
E diceva sospirando: oh se mai ad Argo, pascolerete i cavalli per Diomede e per Ulisse, a voi il cielo permetta il ritorno, invano cercherete la vostra patria! Le mura di Troia, opera di Apollo fumeranno sotto le loro macerie.
Ma gli dei della patria avranno dimora in queste tombe; perché è proprio degli dèi conservare anche nella rovina la loro fama gloriosa. E voi palme e cipressi che le nuore di Priamo piantano e crescerete ahi presto innaffiati dalle lacrime delle vedove degli eroi caduti, proteggete i miei padri: echi non abbatterà pietosamente la scure sugli alberi sacri meno soffrirà di lutti consanguinei e toccherà con mani pure gli altari.
Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un cieco mendicante vagare tra le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrare nei sepolcri, e abbracciare e interrogare le urne. Faranno risuonare il lamento le parti più interne dei sepolcri, e tutta la tomba racconterà la storia di Troia due volte distrutta e due volte ricostruita più splendida sulle deserte rovine per rendere più bella l’ultima vittoria dei greci.
Il sacro poeta, placando le anime sofferenti con il poema, renderà eterna fama ai principi greci per tutte le terre che circondano Oceano.
E tu, Ettore, avrai l’onore di essere pianto ovunque sarà considerato santo e degno di lacrime il sangue versato per la patria, finché il sole continuerà ad illuminare sulle sofferenze degli uomini.
La lettura del testo è abbastanza scorrevole, anche un lettore di cultura media può tranquillamente fruirne, magari prestando attenzione alla linearità della sintassi delle frasi costantemente sconvolta dalle numerosi anastrofi e dagli episodici iperbati.
Il lessico è impreziosito da pregevoli iuncturae (urne confortate di pianto, vaghe di lusinghe, le affatica di moto in moto, insultar e’nembi, d’ozi beato e di vivande, plebei tumuli, lasciva d’evirati cantori, Quel dolce di Calliope labbro etc.) e da nomi, aggettivi e verbi estremamente ricercati e latineggianti (vaghe, mesta, soavi, molli, solingo, involve, affatica, vagolando, ramingando, ricovrarsi, libar, asilo, urna, nembi, vulgo, polve, gleba, preghi, tumulo, guardi, antri, singulto, etere, prece, effluvi, favilla).
Diversi spunti e motivi, già presenti nella precedente produzione poetica del Foscolo, vengono qui ripresi, riformulati e arricchiti: il convinto materialismo, per cui dopo la morte non vi è possibilità se non il “nulla eterno”; la bellezza e le illusioni come motori delle azioni umane; la “sepoltura lacrimata”; il ricordo come espediente per garantire l’estensione della presenza di un defunto tra i vivi; la poesia come strumento esclusivo e del tutto umano per la conquista dell’eternità.
La "celeste corrispondenza d'amorosi sensi"
Le ceneri di molli ombre consoli.
Recentemente sono stato colpito da una dolorosa perdita. La mia gattina, Fridah, all’età di dodici anni si è spenta per effetto di una seria patologia epatica. Per la prima volta ho sperimentato il dolore per la scomparsa improvvisa di un animale a cui ho prestato cure ed attenzioni quotidiane fin dalla sua più tenera età. Chi legge questo post può sicuramente comprendere che adesso mi sento come un papà che non ha più la sua bambina accanto a sé. Dopo qualche ora dalla fatale telefonata con cui il medico della clinica veterinaria in cui era ricoverata Fridah ci ha informato del suo decesso, io e il mio compagno ci siamo informati sulle procedure da compiere per chiudere definitivamente la dolorosa esperienza: avremmo dovuto sostenere dei costi per la gestione della salma? L’ospedale veterinario avrebbe pensato a tutto o sarebbe stato necessario interpellare un’azienda esterna alla struttura ospedaliera? Per la morte di un essere umano è tutto così chiaro. Per i miei genitori, io e i miei fratelli sapevamo come muoverci per garantire loro una cristiana sepoltura. Ma per un gatto, che cosa occorre fare? Presso la reception della clinica ci hanno notificato due possibilità: una cremazione collettiva per un cifra irrisoria, oppure una procedura individuale con tanto di ultimo saluto alla salma fredda e inanimata del mio amore e raccolta delle sue ceneri all’interno di un elegante urna in metallo. Sebbene il mio compagno inizialmente propendesse per la prima ipotesi, data l’eventualità di sborsare cinquecento euro per la seconda, io non ho badato a spese, perché non avrei sopportato l’idea di ridurre la memoria di Fridah al repentino passaggio su questo mondo di un batuffolo di pelo grigio.
So benissimo che esiste la possibilità che dopo la morte non vi sia alcunché e che l’unica realtà possibile e veramente esperibile sia quella della materia. Ma, finché vivrò, la memoria di Fridah continuerà a vivere nella mia mente. Tra i miei ricordi ci saranno per sempre le sue immagini, le sue abitudini, le sue espressioni così buffe, la piacevole sensazione tattile della morbidezza della sua pelliccia, l’umidità delle mucose del suo musetto, le coccole, le carezze, i baci, persino le lacrime che ho versato e la pena che mi sconvolgeva le interiora tutte le volte che la vedevo stare male. L’urna non serve a Fridah, serve a me, povero omuncolo troppo debole di fronte all’idea di lasciarla andare. Quell’oggetto mi ricorderà quotidianamente che l’esistenza di Fridah mi ha reso una persona migliore, che ho imparato qualcosa in più sulla vita, che non devo permettermi di commettere i medesimi errori nell’accudimento di Euphoria, probabilmente il mio gatto definitivo. E la convinzione, l’irrazionale certezza che lo spirito di Fridah sia ancora accanto a me, che un giorno la incontrerò di nuovo, quella forza che mi spinge a cercarla ancora e a rivolgerle la parola ha un nome e un cognome: si chiama (grazie Ugo Foscolo!) “celeste corrispondenza d’amorosi sensi”. Confrontata con i contenuti dell’Editto di Saint Cloud, tale dinamica rivela la pochezza di un provvedimento legislativo espressione di un’ideologia irrigidita (anche per questo reputo insulsa ogni forma di attivismo).
Unico riferimento bibliografico: BALDI G. et alii (2012), Il piacere dei testi, vol. 4: L'eta napoleonica e il Romanticismo, Milano, Paravia-Pearson, pp.101-120.
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